II

Formazione e svolgimento della poesia foscoliana sino all’«Ortis»

1. Il noviziato poetico del Foscolo: la «Raccolta Naranzi»

Chi voglia trovare nella biografia del Foscolo fanciullo i primi segni di un carattere ardente e combattivo, generoso e insofferente, può rivivere gustosamente, su di una testimonianza sicura ed ingenua, il primo scontro foscoliano con l’autorità e l’ingiustizia. Una supplica al provveditore veneziano di Giovanna Spathis, zia materna, con cui il fanciullo rimase a Zante fino al ’92 dopo la morte del padre, ci racconta:

Addí 10 maggio 1785. S.V.Ill.mo et Ecc.mo Sig. Prov.re Giustissimo – Altro non mancava per compimento dell’infelicità et disgrazia della povera famiglia Foscolo che di veder arrestato il suo figlio Nicoleto come autore del scandalo avenuto oggi nel Gheto. Essendo troppo piccolo d’età (come dimostra la fede battesimale che le includo) è impossibile di esser reo. Se restò arrampicato, rispondendo impertinentemente, ciò ha luogo a cagione del suo temperamento vivo et indomabile. Se la giustizia essamina ben la cosa, troverà pure ridicola la presunzione del putto, che disse «voglio liberare li hebrei che inumanamente avete chiusi: sono uomini e devono essere liberi». Se mio nipote starà questa notte in aresto, non solo domani sarà malato per la paura, ma anche la famiglia si troverà in stato pessimo. Abbia pietà degli innocenti infelici che la fortuna sempre perseguita. Certa essendo del suo buon cuore, che sempre ajuta i disgraziati, mi animo implorare la liberazione del povero Nicoleto. Grazie[1].

A parte la sfumatura comica e tenera del finale, questa testimonianza sembra fissare, meglio di aneddoti piú belli e piú retorici della vita piú matura del Foscolo, quel carattere indomabile e quella vocazione di “testa calda”, quell’ansia di impegno che sono essenziali nella vita e nel nutrimento della poesia foscoliana. Ma se si vuole poi iniziare la conoscenza del poeta nella sua prima formazione, bisogna naturalmente risalire ad anni piú tardi e senz’altro all’inizio del periodo veneziano.

Il Foscolo letterato e poeta ha la sua patria in Venezia e trova le sue prime condizioni letterarie appunto in quella letteratura veneta che aveva dato il maggior numero di traduttori preromantici (dal Cesarotti al Gozzi, alla Caminer-Turra, al Dalmistro) e insieme rimaneva fortemente attaccata alla tradizione classica, assorbendo cosí facilmente le esigenze della scuola “lombarda” pariniana e neoclassica nell’accettazione larga di un Cesarotti e di un Pindemonte.

Se il Foscolo tenne sempre alla sua nascita greca e alla sua prima educazione in Dalmazia[2] (quasi ad affermare meglio la sua complessa italianità e insieme il suo carattere europeo), e se questo motivo della sua grecità si andò accompagnando al mito delle Muse che dalla Grecia passarono in Italia, sí da costituire quasi la riprova personale della sua vocazione alla poesia e a quella particolare poesia ellenizzante di cui le Grazie furono poi il massimo esempio italiano, Venezia fu però la città della sua formazione letteraria e politica e la stessa vicinanza, prima ad Angelo Dalmistro (erede dell’elegante eclettismo aperto e tradizionale del Gozzi), poi al Cesarotti, indica bene, nell’insieme con le amicizie epistolari (Bertola), l’angolo entro cui il Foscolo svolge le sue prime ricerche poetiche.

Ed è nel gusto delle traduzioni, che egli annuncia nelle prime lettere a Gaetano Fornasini, e nell’ossessione del labor limae e della autocritica denunciate in questi documenti seri e contegnosi del sedicenne, che noi dobbiamo collocare le prime produzioni che ci rimangono: cosí ingenue e pur bene incentrate in motivi che il Foscolo poteva piú tardi sentir suoi e quasi anticipazione di un approfondimento personale di motivi allora accettati in una scelta di moda letteraria.

E fu un periodo di ricerca ansiosa, di noviziato artistico che il Foscolo vagheggiò poi come largo periodo di ricca vita interiore e tutta poetica sulla bella pagina dei Frammenti su Lucrezio, anche se, parlando dei «molti ardenti e ineruditi poemi di ogni specie» dei primi anni veneziani, doveva pensare alla produzione varia e complessa degli anni ’95-97, piú che alle piccole poesie e versioni classicistiche del manoscritto inviato al Naranzi nel ’94 e comprendente la produzione dai quattordici ai sedici anni.

Mi abbandonò prima degli anni giovanili il dolce spirito delle muse, che primo mi iniziò nelle lettere. Io era appena tinto della lingua latina, e ignaro del tutto della toscana, quando venni di Grecia in Italia; e que’ primi anni della mia gioventú, sebbene circondati da molte miserie, furono nondimeno illuminati dalla musa, e fu il mio ingegno come innaffiato dalla poesia, alla quale tutta l’anima mia si abbandonava. E dal suo ardore incitato, tutti lessi in quel tempo e gli italiani e molti de’ latini poeti; piú assiduamente il padre nostro Alighieri e Omero, padre di tutta la poesia. Cosí mi ravvolsi, senza avvedermi, nelle passioni degli uomini e nello studio de’ tempi e delle nazioni, onde di mano in mano, dopo aver scritti molti ardenti ed ineruditi poemi di ogni specie, m’inoltrai nella storia e nelle dottrine morali e politiche (Prose, ed. Cian, Bari 1913, II, p. 195).

Sí che la pagina che abbiamo letto (e che d’accordo con il Fubini e con il Cian ci sembra da assegnare al 1803 anche per la sua vicinanza a toni ed interessi della Chioma di Berenice, a quel periodo di ripensamenti e di esame dopo Ortis, Odi e Sonetti[3]) serve insieme a precisare una breve storia intima dei primi anni del Foscolo e ad indicare poi verso il ’96-97 (tra Piano di studi e Tieste) una conversione dalla poesia (e dalla letteratura) alla politica e agli interessi etico-storici.

Certo, a parte questa seconda indicazione da utilizzare a suo tempo, la pagina letta ci conforta a stabilire un primo generale momento di lettura e noviziato a loro modo ispirato ed accettato dal Foscolo piú maturo come periodo di vita poetica, come un’epoca di essenziale preparazione e di esercizio ispirato, nel desiderio di conquista della lingua letteraria italiana e di una personale espressione. Ed infatti uno dei caratteri di questo periodo da tener ben presente è la contemporaneità, in un noviziato poetico tutt’altro che esteriore, di una esperienza di lingua poetica non mediata da una prima conoscenza elementare (il primo Foscolo ha forme difettose nelle lettere, ortografia incerta – punto e virgola nel valore greco di interrogativo[4] – e una cerimoniosità propria di chi non si attenta in forme piú sciolte e sicure), e insieme di una esperienza letteraria in funzione di una propria espressione poetica.

Naturalmente il Foscolo accentuò sempre anche esageratamente la sua conquista della lingua italiana e della tradizione latina rispetto all’originale conoscenza della lingua greca, ma certo tale lotta per un sicuro possesso della lingua poetica italiana dà ai Lehrjahre di Nicoletto un carattere tanto piú complesso e tanto piú fortemente letterario nel senso positivo e limitativo di questa parola. Ma nel caso del Foscolo direi che il primo senso prevale e colloca queste esperienze pur cosí diverse ed impazienti nel loro valore generale di “apprendistato”, su di un piano di coscienza superiore a quello delle piú comuni esperienze di adolescenza con cui pure hanno in comune l’ardore e la bruciante versatilità.

Ecco cosí nella Raccolta Naranzi[5] l’ode Alla bellezza che, significativa come iniziale omaggio all’«aurea beltade», ricollega il primo tentativo foscoliano ad un’esperienza esemplare per il classicismo settecentesco: quella del Savioli, risentita nel netto disegno della breve strofa, per effetto di galanteria e di evidenza, nel suono preciso e breve, nella tendenza figurativa:

O tu, cui dolce imperio

su i cor natura diede,

bionda Beltà, cui servono

tenero Amore e Fede,

de’ versi miei spontanei

accetta ingenuo dono;

se a te i miei versi piacciono

anch’io poeta or sono.

Versi che sembrano presupporre una lettura quasi immediata degli Amori nel loro gusto di mitologia e di gesti eleganti e leggeri:

Ancelle tue ti sieguono

le linde grazie, e stanno

tutte su un braccio latteo

con cui tu tessi inganno.

Ma nelle espressioni piú briose che sicure, in quei tipici “errori” rivelatori, si affaccia già, in una direzione omogenea a una tendenza propria dell’anima poetica foscoliana, una suggestione di piú vasta visione in movimento che fa pensare già (naturalmente alla lontana!) alla grande sequenza di immagini della “donna-dea” nelle Odi neoclassiche.

D’un tuo sorriso roseo

irraggia i canti miei,

ché i tuoi sorrisi beano

fin su l’Olimpo i Dei.

Tu di leggiadra vergine

splendi ne gli occhi vaghi,

donde con dardi amabili

soavemente impiaghi;

e tu sul labbro armonico,

o Dea, vi stai scolpita,

che mentre accenti modula

a sospirare invita.

(vv. 9-20)

La tipica sciatteria di linguaggio, che in tanta poesia del ’700 si accompagna con una brillante evidenza di figure e di suoni, si accentua naturalmente nel brio e nella soluzione un po’ sbrigativa di passaggi difficili, di accordi di immagini, e spesso il richiamo arcadico, insito in parte nella stessa sintesi savioliana, induce alla via di uscita piú semplice e meno originale:

Vola ne’ dí purpurei

il garzoncel di Flora,

vieni, ella dice, o Zefiro,

in braccio a chi t’adora;

vieni... ma sordo e celere

ei fugge e non l’ascolta;

quando a lui piace è libero,

e la catena ha sciolta.

L’ «aurea beltade» è qui la «beltade amabile» del classicismo rococò e il finale futile e lambiccato mostra l’incapacità dell’adolescente, ma, come nella dedicatoria al Naranzi, non può sfuggire la novità di tono sul tema “Amore” e rispetto alla nota dedica del Savioli («Amico. L’Amore, quella divinità piú benefica all’uomo, che anima la nostra esistenza, e che c’illude con delle immagini di voluttà e di speranza, mi ha dettato que’ versi, ch’offro al mio sensibile amico, al compagno piú tenero de’ miei giorni perseguitati ed afflitti. Ei leggeralli con quello entusiasmo che gli ecciterà l’affetto piú sacro, e gli occhi suoi lagrimando, li contempleranno in quell’ora che la memoria di me gli richiamerà le rimembranze piú care ecc.»), cosí in questa odicina, un fremito di sensibilità piú “tenera” e un piglio piú robusto e largo indicano nello scolaro precocissimo i primi segni di una personalità originale.

Anche il Ritratto (che corrisponde al gusto autobiografico del Foscolo, cosí istintivo nel suo bisogno di presentare un’immagine di sé che diverrà sempre piú un’immagine del proprio mondo interiore) parte sempre dalla suggestione savioliana e dai luoghi comuni dei neoclassici come Paradisi, Cerretti, ecc., sempre pronti a proclamare il loro carattere di poeti e la loro spontaneità, ma poi nell’accentuazione piú sentimentale e focosa della naturalezza (si ripensi alla frase della Teotochi-Albrizzi sull’amore del Foscolo per la «ingenuità» del suo cuore) si trovano insieme un arricchimento di sensibilità preromantica e un chiaro accenno della particolare natura foscoliana, come in certi giri piú lunghi e “pariniani” del ritmo si avverte il tipico sforzo foscoliano a superare una secca musica brillante, ad inarcare un gesto piú largo e robusto:

O tu, cui gli anni rosei

sono dai vezzi adorni,

cui dell’etade arridono

i piú beati giorni,

desii veder l’immagine

del tuo lontano amico?

Odi i miei versi ingenui,

ché sempre il ver io dico.

A me gentile, amabile

volto non diè natura,

ma diemmi invece un’anima

tenera, fida e pura.

E diemmi invece un fervido

cor, cui non sono ignoti

d’amore e d’amicizia

i piú soavi moti.

E diemmi un estro rapido,

che carmi ai labbri inspira,

per cui non è tra l’ultime

quest’amorosa lira.

Sciatterie insopportabili, come gli ultimi due versi, ma novità di accentuazione etico-estetica, in alcuni punti che riscattano la puerilità del componimento sull’incontro di risultati piú notevoli e di indicazioni essenziali per la nascita di un poeta.

Nelle piccole anacreontiche, forse precedenti (in quegli anni ’92-93-94) a quelle savioliane piú complesse ed elaborate, la presenza di Metastasio, Rolli e Vittorelli indica una direzione di ricerca di brevi effetti musicali, in una fatica di espressione qui tutta risolta in facili cadenze senza il minimo scavo:

Cogliete o pastorelli,

cogliete vaghi fiori,

ché deggio per gli albori

a Fille un serto far.

Farlo vorrei sol io,

ma nol permette l’ora,

ché in cielo già l’aurora

comincia a rosseggiar.

E le dirò che il serto

tessuto è di mia mano.

Ma che? cosí profano

il labbro mio sarà?

Mai menzogner non fui

e s’anche il fossi, ah! Fille,

fra mille fiori e mille

i miei distinguerà.

(Il Serto)

Ecco il tipico canterellare arcadico, il giuoco che sta fra il raffinato e il puerile nel trascinare in un suono sfumato qualche brevissimo lampo di colore, ecco i “vezzosi” interrogativi che muovono appena la terza strofetta prima della pausa sospirosa metastasiana e vittorelliana («fra mille fiori e mille»; «cento memorie e cento» della Partenza metastasiana). Piccolo esercizio, come la Lontananza e la Sorpresa, che mostrano però come in quel linguaggio estenuato ormai, ma ripreso in una piú salda struttura alla fine del secolo dal Vittorelli (“facilismo” rinforzato e insieme reso piú sentimentale), il giovane poeta portava nella dolcezza eccessiva lo spunto di una sensibilità piú prepotente ed acerba:

Le graziose aurette

passano ad una ad una,

e mi promette ognuna

chieder pietà al mio ben.

Chinano il capo i gigli,

scuoton le fronde i rami,

sembrano dirmi: Ed ami

con tanta fedeltà?

(La lontananza)

E nel giuoco raffinato di pause e cadenze tipicamente arcadiche e vittorelliane, un certo gusto ironico di suoni squillanti, di elegante stilizzazione e leggero realismo sembra indicare l’avvio ad un disegno che si farà poi ben diversamente sinuoso e pungente. Cosí l’incontro nella Sorpresa del «nastro porporin», del «gonnellin leggiero» e del tenue profilo femminile:

Ha leggiadretto il labbro,

neri e focosi i lumi,

ha placidi i costumi

e gli atti, al par di te.

Il motivo edonistico che è alla base dei piccoli componimenti accennati si ritrova poi piú allargato e solenne sull’esempio del carpe diem oraziano (traduzioni oraziane appoggiano queste odi come traduzioni anacreontiche appoggiano le prime canzonette ed indicano insieme il loro attacco letterario all’esercizio di traduzione secondo una tipica formazione settecentesca) e nello stesso tempo il ritmo si distende nello schema della saffica, cosí fortunata in quegli anni specie per merito del Parini e dei pariniani che in quell’andamento solenne e conclusivo traducevano la loro volontà di superiore calma e saggezza.

In questa prima fase di esperienze giovanili anche il passaggio da metri esili e rapidi a saffiche piú solenni e pausate, corrispondenti al tipo e al tono pariniano, è indicativo per un passaggio da forme piú brillanti a forme piú complesse, a prove di respiro piú lungo:

Vassi rapido il tempo, e al tempo il duolo

della cadente età tosto succede;

godiam amici: de’ piacer lo stuolo

passa e non riede.

Se piange un infelice, il mesto pianto

tosto da noi si asciughi e si consoli;

chi non esulta delle Muse al canto,

a noi s’involi.

Bell’è l’amor; egli al piacer c’invita;

dunque Ninfa che agli occhi e all’alma piace

sia della nostra fuggitiva vita

conforto e pace.

Vassi rapido il tempo, e al tempo il duolo

della cadente età tosto succede;

godiam amici: de’ piacer lo stuolo

passa e non riede.

(Saffica VIII).

Naturalmente non si deve dimenticare mai il carattere di esercizio, di prime prove che hanno queste poesie in cui l’adolescente faceva un’esperienza iniziale di metri, di motivi, di linguaggio con possibilità di contemporaneità o di eclettismo, ma nel particolare ambito di questo primo apprentissage va sottolineato al termine della Raccolta Naranzi il passaggio, nelle forme classicistiche, a ricerche di ritmo e di tono piú largo e solenne rispetto al cantabile brioso e alle linee esili e rapide delle prime odicine.

E fra le saffiche, in cui la natura del metro e la intonazione letteraria legata a quel metro (fra Orazio e Parini e pariniani) aiutavano l’adolescente in una ricerca di maggior vastità e complessità, sulla sua tipica strada di poesia intensa, di ritmo complesso, particolarmente interessante appare la traduzione da Saffo che il Foscolo riprese con qualche correzione nei Vestigi della storia del Sonetto italiano.

Anzi un breve esame di quella traduzione, delle correzioni e della nuova traduzione fatta nell’epoca inglese, può dare insieme una chiara immagine delle possibilità del Foscolo adolescente e del muoversi del gusto foscoliano in epoche successive, senza un vero contrasto con quelle prime linee di costruzione, nella tendenza a tradurre in una lingua poetica italiana il piú possibile alta e musicale, già implicita in quelle prime «inerudite» prove.

Nei Vestigi della storia del sonetto italiano (1816), nel commento ad un sonetto del Petrarca, passa dall’ultimo verso di questo («e come dolce parla e dolce ride») alla celebre ode di Saffo e aggiunge: «Quest’ode io tradussi or sono vent’anni e piú; e tenni il metro greco inventato da Saffo: sol vi ho aggiunto le rime; né so d’averla neppur mai ricopiata; ma fidando che solamente pochissimi la leggeranno, la stamperò qui (benché senta lo stile assai giovanile), affinché si raffronti come i greci e i nostri esprimano diversamente le passioni dei cuore» (Opere, Edizione Nazionale, VIII, p. 127).

Insomma, pur con molta cautela e qualche inesattezza (l’ode era stata ricopiata nel quaderno al Naranzi, e il testo 1816 era ritoccato), il Foscolo maturo autorizzava quella versione come adatta a mettere in luce un mondo poetico di scrittore greco.

Ed effettivamente nella lezione ’94 noi abbiamo già uno dei risultati piú notevoli di quei primi anni: un esempio di alto stile e un mondo di sentimenti, appassionato e fortemente individuato, davano all’adolescente geniale un singolare appoggio alle sue possibilità di ispirazione e di espressione ancora incerte e tenui, o appoggiate su testi piú adatti a forme di brio piú superficiale, a primi esercizi poco complessi anche se istruttivi per il rilievo del suono e delle immagini.

Colui mi sembra a’ lieti Dii simile

che teco siede, e sí soavemente

cantar t’ascolta, e in atto sí gentile

dolce ridente.

Com’io ti veggio, palpitar mi sento

nel petto il core: in sí beato istante

non vien piú suono d’amoroso accento

sul labbro amante.

Ma vi s’intrica la mia lingua, accensa

scorre ogni vena, suona tintinnio

dentro gli orecchi, cupa notte addensa

il guardo mio.

Sudor di gelo le mie guance innonda,

tremito assale e abbrivida ogni membro,

e senza spirti pallida qual fronda,

morta rassembro.

Si può notare una capacità di legare parole e immagini in un suono piú lungo e sostenuto, una densità di immagini (specie nelle due ultime strofe) accentuate secondo una direzione di intensità specie in verbi ed aggettivi anche se questi vengono spesso come arrotondati e coloriti fra sensibilità e sentimentalità settecentesche: cosí «lieti» dii (e infatti nel ’16 corregge «agli alti Dei»), cosí l’inutile «in sí beato istante» (che non c’è sul testo greco) in coerenza fastidiosa con l’aggiunta di «amoroso» e di «amante» ai versi 7-8 (nel ’16 l’8 divenne «labbro ansante»).

Malgrado le correzioni (un eccesso di colore nel «cupa notte», nel ’16 fu corretto, con evidente miglioramento di suono, di immagine e di sicurezza linguistica:

notte alta s’addensa

sul guardo mio,

come l’inizio della terza strofa, discorsivo e impacciato, viene migliorato nel piú deciso «muta s’intrica») i notevoli risultati della versione giovanile non persero neppure nel ’16 il loro tipico carattere settecentesco, fra una lezione classica, una simpatia preromantica additata nell’ultima parte e un gusto dolciastro di idillio amoroso.

Sí che piú tardi, nei suoi Saggi sul Petrarca, il Foscolo traduceva di nuovo l’ode di Saffo:

Quei parmi in cielo fra gli Dei, se accanto

ti siede, e vede il tuo bel riso, e sente

i dolci detti e l’amoroso canto!

A me repente

con piú tumulto il core urta nel petto,

more la voce, mentre ch’io ti miro,

sulla mia lingua, nelle fauci stretto

geme il sospiro.

Serpe la fiamma entro il mio sangue, ed ardo:

un indistinto tintinnio m’ingombra

gli orecchi, e sogno: mi s’innalza al guardo

torbida l’ombra.

E tutta molle d’un sudor di gelo,

e smorta in viso come erba che langue

tremo e fremo di brividi, ed anelo

tacita, esangue.

Traduzione drammatica, in cui la linea salda si ricompone su di una estrema tensione di singole espressioni secondo la piú nota tecnica foscoliana, specie dei sonetti. Ed è questa tensione aspra che manca nella versione giovanile nella sua armonia piú facile ed esterna.

Ma sulla via della conquista dello stile e della personalità quella versione aveva indicato uno sforzo di profondità, di scavo, e un equilibrio compositivo che ci conducono dal volumetto del ’94 alle esperienze degli anni successivi: e di fronte ad alcune poesie posteriori quell’equilibrio rimane anzi insuperato anche se su di un piano inferiore rispetto al nuovo sforzo di nuove esperienze e di nuova sintesi sempre piú larga e sempre piú personale. Osservazione che ci porta a indicare in questa faticosa formazione del giovane Foscolo, piú che un incerto tortuoso cammino, uno svolgimento a spirale che culmina nell’Ortis ed in cui esperienze e risultati vengono utilizzati e ripresi dai loro diversi piani di origine in piani piú alti e sicuri.

2. Esperienze preromantiche

La raccoltina Naranzi si concludeva con alcune versioni dal Gessner e dal gessneriano Weisse e nella stessa dedica al Naranzi si avverte bene la vicinanza del giovane classicista a quei toni di sensibilità moderatamente preromantica che in Italia si mescolavano in quegli anni alla “grazia”, al disegno classicistici. In tale direzione, prima di esperienze piú decisive ed irrequiete, sul limite fra la raccolta Naranzi, nel suo chiaro cerchio di gusto classicistico e di stato d’animo giovanilmente edonistico (e per il futuro, acquisto di una capacità di nitido disegno, di suono brillante, di breve immagine sensibile e delicata), e gli impegni piú vasti e confusi in forme variamente preromantiche, un’altra personalità letteraria si presenta alla simpatia del Foscolo e gli offre un sottile ponte di passaggio al gusto preromantico vero e proprio in coincidenza con una sentimentalità ormai piú aperta, anche se ancora incline a soluzioni idilliche e poco profonde, a beatitudine di anima sensibile ingenuamente lieta di occasioni di tenera sospirosità, di patetismo poco impegnativo.

Fra idillio pastorale di origine classicistica e arcadica (con dietro Tasso e Metastasio, Teocrito e Anacreonte) e il sentimentalismo naturalistico rousseauiano, il Gessner e il suo traduttore e banditore italiano, Aurelio de’ Giorgi Bertola, rappresentavano un incontro essenziale sui margini della tradizione e del gusto settecentesco per il giovane Foscolo nel suo muoversi da forme classicistiche, da grazia rococò savioliana a “grazia sensibile” e tenera preromantica.

Ecco cosí la poesia La campagna (1795) dedicata al Bertola e cosí ancora miniaturistica e vicina (attraverso le versioni da Gessner) al gusto savioliano nella sua grazia esile, nel suo suono poco complesso. Se si pensa alla traduzione da Saffo si ha l’impressione di un passo indietro, ma si avverte, nella somiglianza con le prime odicine del ’94, l’insinuarsi di una sensibilità maggiore, di un gusto di paesaggi pur cosí elementare, di leggerezza e candore di disegno in riferimento a candore e naturalezza d’animo e l’indugio nel facile canto per una suggestione di tenerezza, di soavità e se si vuole persino di svenevolezza che mescolano grazia arcadica e classicistica a un piú deciso tono sentimentale.

Nel ritorno di precisi schemi del Bertola (e quanti versi bertoliani risuonarono alla memoria del Foscolo anche all’epoca delle Odi: «Le Grazie il letto apprestano», «sul talamo beato»; vol. I, 37, p. 177[6], e quante immagini, quanti quadretti bertoliani, specie delle Lettere campestri ritornano nell’Ortis sul motivo di idillio campestre, specie nella redazione 1798) e di parole, di linea di quelle poesie allora cosí fortunate, il Foscolo fa questa prova di tenue disegno in cui la linea classicistica si arricchisce di una nuova suggestione in riferimento ad uno stato d’animo piú “vago” e sentimentale di quello presente nelle odicine savioliane e anacreontiche.

Stato d’animo chiaro nella lettera di dedica al Bertola e in altre lettere di quell’anno, come in quella al Fornasini del maggio 1795:

Voi mi credete innamorato, e perciò malinconico. Ma l’amore s’impadroní, e regna su me non quale ambizioso tiranno, ma affettuoso come un tenero padre, ed ingenuo come il piú dolce degli amici miei. Amo: ma contento di un solo sguardo, passo i giorni col mio Tibullo, o con il patetico cantore di Selma. Ma le malinconie non mi lasciano che di rado, ed io ne godo ch’esse alberghino meco. Non nutro sensi, o pensier di rancore o di negra ipocondria, ma di dolori che mi sollevano e che mi trasportano in una deliziosa fluttuazione d’affetti, od in una calma concentrata che mi conduce alla saggia meditazione

Fuor dalle vie frequenti,

né a me né a gli altri grave,

io passo i miei momenti

in tristezza soave».

(Epistolario, I, pp. 11-12).

In quel momento di vago preromanticismo idillico, il dominatore del suo gusto era giustamente il Bertola, il «Poeta della natura», come appunto lo chiama il Foscolo nella lettera a lui diretta il 28 maggio 1795 «dalla Motta» (dove si era recato a villeggiare presso dei parenti meno poveri).

Io le scrivo dalla campagna, dove un giorno dopo la di Lei partenza per Rimini me ne venni con gli Idilli del nostro Gesnero e col tenero cantore di Laura. Questi riposi che offre la solitaria libertà svegliano ad ogni istante entro il mio petto quelle sensazioni ch’io sento alla lettura de’ campestri prospetti ne’ di Lei fogli. Fra gli ondeggiamenti e le dolcezze di un estro eccitato dalla campagna non dovea forse consacrare al suo pittore i miei canti? non dovea forse mostrarmi grato a quel vate che seppe deliziarmi coi gentili suoi versi? Signore, Ella accetti quest’ode, ch’io scrissi due giorni sono fra i boschi, pieno il pensiero ed il cuore di Lei. Possa costei cattivarmi il compatimento dell’evidente cantore delle Odi, che respirano i piaceri del rurale soggiorno e della semplice pace (Epistolario, I, p. 15).

Nel tipico tono di “anime belle”, il sentimentalismo idillico preromantico serviva a maturare la sensibilità foscoliana e l’esempio del Bertola «evidente» e «naturale» confermava un primo incontro di fermezza di linea classicistica e di ricchezza sentimentale, nei toni meno difficili della tenerezza, della tenue descrizione sentimentale e pittoresca del paesaggio. Tenera sentimentalità, descrizione di natura sensibilizzata che nell’ode La campagna si risolvono in un esile disegno e in un breve canto di scarso rilievo, in una direzione di descrizione e di evocazione di paesaggi che è la piú elementare preparazione di una tendenza essenziale della poesia foscoliana.

Fra campestri delizie

tranquillo e lieto io vivo,

e col pensier fantastico

tra me canto e descrivo

sí vaghi paeselli,

che ognor sembran novelli.

Pingo; ma resto attonito

allor che su i tuoi fogli

veggo fiorire, e sorgere

piante e marini scogli

che sembrano invitarmi

a sacrar loro i carmi.

Da me s’invola subito

il mio picciol soggiorno

e sol veggo Posillipo

e il mar che vanta intorno

di Mergellina il lido

ameno piú che Gnido...

Salve, dunque, del tenero

Gessner felice alunno!

Il lor poeta adorino

d’aprile e dell’autunno

le Grazie e i lindi Amori

coronati di fiori.

Il lor poeta adorino

le serpeggianti linfe,

e dai monti scherzevoli

scendan le gaie Ninfe,

e alternin baci in fronte

al tosco Anacreonte[7].

Questi versi “bertoliani” che iniziano una ricerca di tenero paesaggio idillico continuata e svolta soprattutto nel primo Ortis e che risuonano cosí facili e superficiali, indicano tuttavia il passaggio del giovane Foscolo alle forme preromantiche dalla loro maniera piú aggraziata a quelle piú impegnative ed estreme dell’elegia amorosa e sentimentale, dei toni lunghi e cupi. Ed è proprio alle tinte lugubri della poesia preromantica che il Foscolo si volse nel ’95 nel breve ciclo «in morte del padre»: una canzone e cinque sonetti (il secondo dei quali fu pubblicato nell’«Anno Poetico» del 1797 e il quinto fu aggiunto come variante del secondo nel ’96).

Furono le letture delle Notti di Young o delle Elegie di Salomone Fiorentino che gli permisero di rivedere l’avvenimento doloroso e fondamentale della sua fanciullezza (il padre era morto di tisi nel 1788 lasciando moglie e figli in povertà) in un adeguato linguaggio poetico, in cui esigenze del suo animo (il motivo della sventura che perseguita la sua vita familiare è motivo ossessionante in tutta la vita foscoliana) e rivelantisi al di là dei primi motivi edonistici delle odicine classicistiche ed ampliamento dei suoi mezzi espressivi coincidono: esercizio formativo essenziale per un primo arricchimento di mezzi espressivi che poi il Foscolo piú maturo utilizzerà con maggior coscienza stilistica, e prova di espressione di motivi dell’animo che vengono cosí individuandosi e fermandosi pur nella loro esistenza piú elementare e piú contaminata dall’eccessiva influenza letteraria.

Nella tipica scuola della poesia lugubre o cimiteriale (e sempre il Foscolo risentirà suggestioni di questa corrente essenziale dell’ultimo Settecento specie nel testo veramente poetico del Gray), già autorizzata per lui dalle Notti Clementine del Bertola in un incontro persino petrarchesco (la nuova funzione sentimentale ed elegiaca del Petrarca è molto evidente nei componimenti di quegli anni, specie nella scelta cosí caratteristica dell’«Anno Poetico»), nasce la stanca e monotona Canzone, esempio di decoro, di abilità di struttura e di utilizzazione della lingua poetica petrarchesca.

Se la Canzone vale a chiarire questo primo contatto essenziale con il Petrarca e a mostrae una prova di capacità tecnica nel costruire, i sonetti sono soprattutto interessanti per alcuni versi di suono ormai foscoliano che nascono al sommo di questa esperienza sentimentale e letteraria di tipo preromantico e per quel motivo della tomba che agisce con brutale ossessione in un quadro troppo realistico ed esteriormente drammatico, pur cosí notevole per il muoversi della fantasia foscoliana dai primitivi quadretti edonistici e per il crescere di una esigenza espressiva piú ambiziosa e difficile. (Piú tardi il motivo della tomba e della morte si libererà del carattere convulso di questi sonetti – che ritorna ancora nell’Ortis – e diventerà alto motivo lirico).

Il linguaggio petrarchesco viene piegato a forme piú realistiche, quasi narrative nei due sonetti piú interessanti, II e III, ma si risolleva piú libero nei finali, dove lo sforzo del giovane poeta appare piú realizzato o come effetto grandioso e dolente

(la notturna gemea terribil calma),

o come suono malinconico e sciolto

(non altro avanza che miseria e lutto),

o proprio in una complessità di verso ormai foscoliana, come nel finale del III sonetto:

A dir sue pene e ad invocar la morte.

Piú ad effetto è il IV (e piú generico il I), in cui l’armamentario younghiano (la suggestione dell’episodio di Narcisa) è adoperato a piene mani e con il tipico ritmo a rintocco funebre portato all’estremo con incontri di suoni quasi impronunciabili (il terzo verso!) per un effetto di orrore e di allibimento:

Oh qual orror! un fremito funébre

scuote la terra ed apresi la fossa,

ove in mezzo a tetrissime tenébre

stan biancheggiando del mio padre l’ossa.

Le guardo allor con incerte palpébre

scendo d’un salto e alla feral percossa

gemono le profonde alte latebre

ove ogni parte della terra è mossa.

E già stendo la man: già il cener santo

raccolgo... ahi tremo... la piú cupa notte

mi casca intorno, e il cor gelo mi stringe.

E par che un suono, un pianto, mi rimbrotta,

ond’io mi fuggo, e tutto mi dipinge

l’ossa, l’orror, l’oscuritade e il pianto.

Piú sicuro il III che meglio trova la sua soluzione finale e meglio regge un sostenuto andamento realistico e lirico in un ritmo ricco e legato (e si noti l’inizio ex abrupto sempre cosí caro al Foscolo):

Fu tutto pianto: e con un grido acuto

in braccio al figlio disperata corse

la trista moglie, e a me stretta s’attorse

quasi chiedendo a sua sventura aiuto.

Parlar voll’io: ma, ogni accento perduto,

un bacio solo il labbro mio le porse

e seco infin che trista l’alba sorse

abbracciato io mi stetti muto muto.

A lei scorrean mie lacrime sul seno

tacitamente; e come ella staccosse

vidimi il volto di su stille pieno.

Da quel dí sempre all’urna del consorte,

surta di notte, squallida si mosse

a dir sue pene e ad invocar la morte.

È certo migliore per misura e per un facile incontro di realismo e lirismo del II che il Foscolo pubblicò nel ’97 nell’«Anno Poetico», preferendolo giustamente alla diversa lezione del V che è comunque inferiore, convulso e tutto preso come il IV dalla preoccupazione di una coerenza estrema di toni macabri, di tinte cupe

(Rotte da tetro raggio le tenébre

cingeano il genitor che si giacea

agonizzando sul letto funébre

e i moribondi sguardi al ciel volgea).

Nel II il tono tetro era pur sempre esagerato e la scena dell’agonia e della morte del padre (ma si noti ancora come queste forme di preromanticismo estremo aiutavano il giovane poeta ad approfondire il proprio animo, quel «cupo mondo ove gli affetti han regno» in cui il Parini e i classicisti non avevano voluto scavare) è certo inferiore al maggiore equilibrio realizzato nel sonetto III:

Era la notte: e sul funereo letto

agonizzante il genitor vid’io

tergersi gli occhi, e con pietoso aspetto

mirarmi, e dir in suon languido: Addio.

Indi obbliato ogni terreno obbietto

erger la fronte ed affisarsi in Dio.

Mentre avvolta dai crin batteasi il petto

la madre rispondendo al pianto mio.

E volte a me le luci lacrimose

deh basti! disse: e alla mal ferma palma

appoggiò il capo, tacque e si nascose.

E tacque ognun: ma già spirata l’alma

cessò il silenzio, e alle strida amorose

la notturna gemea terribil calma.

L’ambizione del giovane poeta era però evidentemente rivolta soprattutto a creare un’atmosfera e ad articolare il sonetto in una salda successione di scene patetiche e drammatiche. E in questo senso, pur nel linguaggio approssimativo e convenzionale, anche questo sonetto come il III ha un notevole valore in questa prima fase della formazione foscoliana.

Su questa strada di caratterizzazione di motivi foscoliani dentro un generale esercizio stilistico nello stimolo delle maniere preromantiche vanno considerate fra il ’95 e il ’96 l’elegia In morte di Amaritte e l’elegia Le rimembranze.

Come i sonetti in morte del padre rappresentano un’esperienza in direzione drammatica e realistica dentro un esercizio di costruzione sonettistica notevole per capacità già sperimentata di articolazione dell’organismo poetico e per espressione di sentimenti e di atteggiamenti piú complessi di quelli individuati nella Raccolta Naranzi, cosí questi componimenti, fortemente legati allo stato di «soave malinconia» già annunciato nelle lettere citate, rappresentano un’esperienza idillico-elegiaca su base di fantasticheria amorosa che, mentre assicura toni che torneranno nell’Ortis bolognese (opera in cui tutte le gradazioni sentimentali e stilistiche provate dal Foscolo adolescente ritornano dominate da una piú sicura presenza dell’autoritratto foscoliano e in un chiaro primato di motivi idillici-elegiaci piú maturi e complessi), utilizza letture e suggestioni letterarie preromantiche in un arricchimento del verso in direzione di suggestione musicale al di là dei brevi echi sonori delle odi classicistiche.

I versi In morte di Amaritte furono pubblicati nella seconda edizione di un libretto di versi dello stesso titolo per Marietta de’ Medici Balladoro morta a ventidue anni il 12 dicembre 1794 (Venezia, 1796) e quindi certamente composti assai dopo l’“occasione” e dopo la lettura dei componimenti pubblicati nella prima edizione del libretto.

L’Elegia In morte di Amaritte è un tentativo assai notevole di sistemare in una composizione ampia ed accogliente le suggestioni e i luoghi comuni della letteratura preromantica fra Notti di Young e Nouvelle Héloïse di Rousseau per intensificare un clima malinconico capace di salire a toni tetri o a toni di idillio, ma tutto appoggiato ad una cadenza dolce e dolente, musicale e sentimentale in cui l’adolescente realizza letterariamente il suo stato d’animo languido e sognante.

Qui sorge un’urna, e qui in funereo manto

erran le Grazie, e qui echeggiar s’ascolta

flebili versi, fioche voci, e pianto.

E di cipressi sotto oscura volta

cupa Malinconia muta s’aggira

coi crin sugli occhi, e nel suo duol raccolta.

Impasto dolciastro che riecheggia traduzioni e addolcimenti italiani di testi preromantici fra espressioni piú crude e forme piú vaghe e sfumate in una intonazione di tenerezza e musicalità che non mancano poi nel primo Ortis: una tenerezza e una musicalità che sommergono i punti piú vivi e rappresentano la maturità relativa di questo tono idillico-elegiaco nelle concrete possibilità del giovane Foscolo. E si notino in proposito la capacità di continuità e la scioltezza che su questa via piú facile ormai il Foscolo aveva ottenuto come prima l’aveva ottenuta su quella del classicismo savioliano.

Qui pur regna tristezza! E al colle, ai prati,

agli alberi, alle fonti, ed agli augei

narra il buon veglio d’Amaritte i fati.

Anch’io, dolce poeta, anch’io perdei

tenera amica, onde confondo or mesto

a’ tuoi dirotti pianti i pianti miei.

Eran gli occhi suoi caro e modesto

raggio di Luna, era il parlar gentile

gioioso cardellino appena desto.

Ah! la Ninfa piú amabile d’aprile,

che inghirlanda di rose i crini a Flora,

tanto non era a sua beltà simile.

Ma come il Sol della vezzosa Aurora

le chiome arde e le vesti, e co’ suoi dardi

spegne i fioretti, e di Favonio l’ora;

cosí Morte accigliata i dolci sguardi

della tenera amica d’improvviso

chiuse, ché i voti miei furono tardi.

Pallido e smorto io vidi il vago viso,

udii gli estremi accenti, e ’l fiato estremo

esalare fra un languido sorriso...

Nella tipica spirale di questi primi anni la scioltezza delle prime odicine (che aveva assicurato un tono essenziale al futuro Foscolo su piano inferiore) è riconquistata su questo nuovo tono di elegia preromantica dopo le prove piú difficili dei sonetti per la morte del padre, cosí come altre prove contemporanee (le poesie piú di «suo conio»), equilibrate e rumorose, portano nuove esigenze personali, rappresentano il desiderio di una espressione lirica piú alta e piena, piú grandiosa e carica di significati, e nel loro squilibrio implicano la ricerca di un nuovo piano e una riconquista successiva di un equilibrio piú sicuro e piú personale.

Legata ai versi In morte di Amaritte, ma piú caratterizzata per un gusto romanzesco, lirico-narrativo che fa pensare ad un titolo del Piano di studi, Laura, lettere, è l’elegia Le rimembranze, pubblicata nell’«Anno Poetico» del ’97 e scritta fra il ’95 e il ’96.

Lo schema riconduce insieme ai romanzi epistolari tipo Nouvelle Héloïse (v. E. Bottasso, Foscolo e Rousseau, Torino 1941) e a quelle epistole drammatiche in versi come Abelardo ed Eloisa di Pope, imitata in Italia dal Pindemonte (Lettera di una monaca al re di Danimarca): interessante ponte di passaggio fra esperienze liriche ed i tentativi di romanzo (Laura) che annunciano l’Ortis.

L’avventura autobiografica che dietro può esservi celata è tutta trasposta su di un piano di sogno. Il che sempre avviene per le vicende amorose foscoliane trasfigurate in poesia, ma particolarmente in questa elegia giovanile preromantica affetti e situazioni son tutti composti anche secondo una linea di gusto-letterario che poté influire direttamente sulla stessa sensibilità dell’adolescente già nella vita prima che nella espressione poetica.

Questa elegia è ad ogni modo la prova piú matura sulla linea preromantica iniziata nel Foscolo dalla maniera del Bertola, arricchita con la suggestione di Young, Rousseau, Cesarotti e con una contaminazione petrarchesca (che riportava a lui la tradizione italiana piú antica), approfondita dai sonetti per la morte del padre in senso piú drammatico e personale.

La costruzione è riuscita soprattutto nel suo aprirsi su di un paesaggio e su di un tono di ricordi e nel suo chiudersi con un tipico verso foscoliano (il primo Foscolo trova spesso la sua originalità nelle chiuse):

Deh, a che non venne, e l’invocai, la morte?

Una lenta presentazione del paesaggio gustato alla maniera preromantica come carico di suggestione sentimentale e di rimembranze (il mito del ricordo si presenta nel Foscolo in questa poesia nostalgica e malinconica), non senza concessioni a un gusto lezioso che coincide con l’equilibrio letterario, con la compostezza facile di questa poesia.

E questa è l’ora: mormorar io sento

co’ miei sospiri in suon pietoso e basso

tra fronda e fronda il solitario vento.

E scorgo il caro nome, e veggo il sasso

ove Laura s’assise, e scorgo i prati,

ch’ella meco trascorse a passo a passo.

Questa è la pianta che le diè i beati fior

ch’ella colse, e con le molli dita

vaga si fè ghirlanda ai crini aurati;

e questo è il conscio speco, e la romita

sponda cui mesto lambe un fonte e plora,

e i ben perduti a piangere m’invita.

Linguaggio elegante, anche se non assicurato da un profondo incontro romantico-classico come nel grande Foscolo, che proseguirà però su questa strada, oltre questa prima tenue sintesi preromantica e tradizionale per risultati di alta e sensibile eleganza: «conscio speco», «romita sponda», ecc.

Qui de’ piú gai colori ornossi Flora,

qui danzano le Grazie, e qui ridente

a mirar la mia donna uscí l’Aurora.

E qui la Luna cheta e risplendente

guatonne e rise, e irradiò quel ramo

ove ha nido usignol dolce gemente:

e scosso l’augellin mentre ch’io «T’amo»

a Laura ripetea, ridir s’udia

ne’ suoi dolci gorgheggi «Io t’amo, io t’amo».

Toni pastorali (si può ricorrere fino all’Aminta), leziose eleganze di linguaggio tradizionale («guatonne e rise»), accordi di colore classicistico con lievi immagini preromantiche, dan luogo nella fantasticheria paesistica sentimentale ad una poesia misurata e accogliente in cui diverse gradazioni di idillio e di elegia possono facilmente alternarsi: cosí si noti l’estrema abilità del passaggio ad un tono piú melanconico (ma non macabro), l’incupirsi della scena nell’affascinante figura della Sera di suggestione pindemontiana e di suono ormai foscoliano.

Già s’avanza la Sera, e la ritorta

conca tien nella destra, e di rugiade

le languid’erbe e i fiori arsi conforta,

e il Sol, che all’Ocean fiammeo ricade,

varie tinge le nubi, e lascia il mondo

a l’atra Notte che muta lo invade:

e tutto è mesto; e dal cimerio fondo

s’alzan con l’Ore negre e taciturne

Oscuritate e Silenzio profondo.

Poi la scena notturna e cimiteriale sente il bisogno di appoggiarsi su immagini preromantiche piú esplicite, ma lo fa sempre con misura e ricavandone una cadenza piú languida che eccitata e drammatica.

Era l’istante che su squallide urne

scapigliata la misera Eloisa

invocava le afflitte ombre notturne;

e sul libro del duolo u’ stava incisa

Eternitade e Morte, a lamentarsi

veniva Young sul corpo di Narcisa.

Mediocre e misurata illustrazione preromantica su cui si svolge l’ultima parte nella ripresa del tono estatico che trova modo di utilizzare persino dei versi danteschi prima del bel verso finale:

Io smarrito in sembiante, e aperti ed arsi

i labbri, e incerti i detti, e gli occhi in pianto,

coi crin sul fronte impallidito sparsi,

addio diceva a Laura; – e Laura intanto

fise in me avea le luci, ed agli addio,

ed ai singulti rispondea col pianto...

e mi stringea la man: – tutto fuggio

della notte l’orrore e radiante

io vidi in Cielo a contemplarci Iddio.

E petto unito a petto palpitante,

e sospiro a sospir, e viso a viso,

la bocca le baciai tutto tremante.

E quanto io vidi allor sembrommi un riso

dell’universo; e le candide porte

disserrarsi vidi’ io del Paradiso.

Deh! a che non venne, e l’invocai, la morte?

3. L’aspirazione ad una poesia grandiosa e la retorica del “vate”

Mentre nel ’95 e ’96 si svolgeva l’esperienza idillico-elegiaca culminata nelle Rimembranze e nella prosa a noi non pervenuta di Laura, lettere e il giovane Foscolo vi raggiungeva un particolare equilibrio fra tensione personale ed echi letterari su di un motivo essenziale della sua ispirazione sino all’Ortis, un altro tono e un altro motivo si venivano preparando in lui attraverso prove eccitate e farraginose, nettamente piú squilibrate delle stesse poesiole della raccoltina Naranzi nella loro esile compostezza.

Sono poesie, alcune di occasione, altre no, ma tutte ugualmente impostate in maniera eloquente e quasi per una pubblica recitazione, e d’altra parte rivelatrici, nel loro insopportabile clamore, di una confusa volontà di espressione originale e potente che il giovane Foscolo doveva sentire come strada di un tono maggiore (e vi coincidevano motivi nuovi e le piú viete e scolorite maniere di poesia settecentesca a fondo baroccheggiante) rispetto alle espressioni fra Savioli e Bertola e persino di fronte alle piú genuine espressioni di «anima sensibile», sentite come meno virili, come meno eroiche, come piú “private” e confidenziali: e d’altra parte in qualche modo piú facilmente e stabilmente raggiunte.

Ricordiamo d’altra parte subito che questa serie di poesie, che finisce per sfociare e risolversi nel Tieste e nelle poesie politiche del ’97 in una direzione piú precisa e poeticamente efficace, si intreccia, in quei due anni cosí abbondanti di esperienze, all’altra direzione di sviluppo usufruendo insieme a questa di letture ed esempi letterari che valevano anche in senso generale come una cultura letteraria che fu poi sempre riserva e premessa essenziale della cultura del poeta maturo, e come motivo di esercizio stilistico nel suo carattere piú generale.

Cosí Monti e Cesarotti potevano fornire suggestioni e cadenze e linguaggio a poesie di diversa intonazione ed echi del Mazza «poeta dell’armonia» e persino di Dante e di Petrarca potevano essere utilizzati nella direzione della fantasticheria amorosa e dolente come in quella del canto eloquente e profetico: ma a questo davano soprattutto avvio le suggestioni e le pseudo-teorie dell’ultimo Settecento circa il poeta “genio”, il poeta “vate” e “bardo” (cantore piú del “sublime” che del “bello”), che, piú tipicamente preromantiche, non mancavano neppure alla poetica neoclassica, né a certa ultima Arcadia pomposa e “sacerdotale”. Certo sul Foscolo agí particolarmente il Cesarotti nel suo vasto cerchio di letterati discepoli ed amici: il Cesarotti traduttore dell’Ossian e di Omero, ammiratore del “genio” e del “sublime”, di una poesia insieme sentimentale (la Venere del pianto) e grandiosa ed eroica, poteva essere il destinatario ideale anche di quelle prime pessime prove di poesie che il Foscolo aveva già composto prima della lettera del 28 settembre 1795 con cui si inizia la consuetudine di amicizia con il letterato padovano.

Sono quelle odi di cui parlava al giovane amico Fornasini (29 agosto 1795) per una ideata pubblicazione che egli dice ostacolata dai rigori dell’inquisizione (censura) e per la quale aveva preparato una dedica all’Alfieri (il maggiore indice della direzione violenta di quella poesia prima di una decisa apparizione del grande astigiano fra i miti della sua fantasia e nella sua formazione letteraria), un motto latino anch’esso eloquente e impegnativo («Vitam impendere vero») e il titolo di Odi di Niccolò Foscolo. Dovevano essere una decina di componimenti, compresa l’odicina La campagna piuttosto stonata in quella compagnia di titoli sonanti, se non fosse stato il legame della naturalezza e spontaneità che poteva rannodarla a quelle espressioni desiderose appunto di sincerità e di verità sentimentale: «A Dante, La Verità, L’Avarizia, La Patria, L’Olocausto, L’Incontentabilità, I destini, Ai Regnanti (qui l’Inquisitore fa fuoco), L’Adulazione, All’Italia», eccone i titoli, a cui si aggiungeva, con preoccupazione critica non pari comunque alla giovanile brama di affermazione e di notorietà, un asterisco o una doppia virgola ad indicare il loro stato di maggiore o minore elaborazione stilistica[8]. Poesie che poi nel Piano di studi, alla fine del ’96, vengono indicate, insieme a qualche altra dello stesso tipo e con qualche modificazione di titolo, come odi «del conio dell’autore».

Evidentemente, con questa designazione, si volevano distinguere queste poesie dalle imitazioni piú immediate dei primi anni e insieme indicare (cosa per noi piú interessante) una volontà di originalità di tono e di argomento “contemporaneo” ed eroico nei confronti dei soggetti mitologici o sentimentali-amorosi corrispondente all’evidente influenza sul giovane delle idee del “genio” (egli parla anche di un poema Il genio in tre canti, «il genio universale, il genio nelle scienze, il genio nelle arti», che non ci è giunto e che ci richiama simili poemetti di quegli anni del Marenco, del Mazza, del Rezzonico) e del “sublime”, insieme a quell’ansia di una poesia carica di significato morale e genericamente religioso e civile che lo avvicinava insieme al Monti e al Parini, alla poesia biblica e varaniana, nel tipico eclettismo di quegli anni. Ma soprattutto, prima del Tieste e delle poesie politiche, nel loro gusto tronfio di odi celebrative e di occasione, questi componimenti ci indicano una confusa urgenza dell’animo foscoliano ad esprimere motivi alti, motivi di novità, di originalità ad ogni costo che ci fanno considerare queste poesie soprattutto in blocco, nella loro natura fra sentimentale e poetica, fra eloquente e letteraria che non raggiunse equilibrio, malgrado modelli di costruzione generale e di linguaggio particolare.

Del primo gruppo del ’95 ci rimangono due odi: A Dante, La Verità. La prima, che risente delle discussioni sulla poesia dantesca rivalutata in maniera piuttosto retorica nell’ambiente veneziano gozziano (il Foscolo aveva frequentato nella scuola di S. Cipriano a Murano le lezioni del gozziano Angelo Dalmistro sul cui «Anno Poetico» venne pubblicando alcune delle sue poesie di questi anni), si risolve, piú che in un enfatico ed avventato elogio di Dante (poeta-genio, poeta-vate), in una generica e turgida affermazione della propria originalità di poeta-vate contro i tempi bassi e mediocri, quali il «giacobino in formazione» (come lo chiamò il Carducci), ancora inconsapevole della precisa direzione rivoluzionaria, si atteggiava agonisticamente come rivendicatore del genio, come annunciatore di una indeterminata eversione e dell’avvento di una nuova civiltà potente, morale e libera. Frasi avventate e squilibrate fino ad apparire sgrammaticate (ma abbiamo visto che a quel tempo il Foscolo sapeva scrivere un linguaggio corretto e persino elegante, in altre direzioni), un’enfasi turgida e mal definibile in un disegno intellettuale e sentimentale preciso:

Alto rombano i secoli

su rapidissim’ali,

e dall’aere giú vibrano

dritti infiammati strali

che additano agl’ingegni

d’eterna gloria i segni...

Sono violenze verbali che indicano uno sforzo immaturo e pretenzioso, fra echi letterari (Monti, Varano, Cesarotti e pindarici) piú omogenei a quella volontà di grandioso ed espressioni piú facili e convenzionali che accentuano l’impressione di eclettismo linguistico cosí comune nell’ultimo Settecento, prima del chiaro affermarsi del neoclassicismo piú sicuro o del romanticismo manzoniano:

ma qual nebbia! qual livido

umor spargon dai vanni

che in fetida caligine

attomban nomi ed anni

e rodono quel serto

che ombreggia un tenue merto!

Fervore quasi febbricitante che portava il Foscolo cosí lontano dalla tenue compostezza dei primi anni, e dalle forme elegiache piú tenere in cui veniva pur esprimendosi in questo periodo verso la conquista di una sicura espressione poetica del proprio animo in formazione.

Muta di luce eterea

alle peccata in grembo

fra cupo orror s’avvoltola

l’Umanità: il suo lembo

spruzzi di sangue stilla

ed ella va in favilla.

Ma ira di giustizia

lui che può ciò che vuole

ruggisce in cielo e scaglia

di spavento parole;

vennero i giorni alfine

di piaghe e di ruine.

Vennero sí: ma sorgere,

giganteggiando, i nostri

carmi vedransi, e liberi

calpestare que’ mostri

che tumidi d’orgoglio

siedono ingiusti in soglio.

E nella Verità (pubblicata poi nel ’96 nell’«Anno Poetico») assistiamo ugualmente ad una specie di inno fra religioso e morale in cui echi varaniani e montiani cedono nell’ultima parte a una piú decisa ripresa pariniana fra Caduta ed Educazione. Nella seconda parte l’imitazione piú precisa permetteva uno scorrere piú facile di suoni e di immagini

(E tu chi sei che il titolo

santo d’amico usurpi?

E vile d’amicizia

l’aspetto almo deturpi?

Chi sei tu che m’inviti

di gloria a spander raggio

e a sciorre inni graditi

a chi in virtú è selvaggio?

Non sai che santuario

al ver nell’alma alzai

o che io nel vero antistite

sempre d’esser giurai?

Non sai che mercar fama

da tal canto non curo,

e piú dolce m’è brama

sul ver posarmi oscuro?),

ma nella prima l’intonazione da inno sacro provoca strofe piú convulse e insieme piú ricche di una squilibrata forza incapace di chiarirsi[9], ma capace di mosse energiche, di suoni che, sotto il rumore piú esterno e sotto versi chiamati dalla rima, rivelano echi interni tutt’altro che trascurabili in questo affermarsi progressivo di animo e di ispirazione dentro le varie esperienze poetiche.

Sino al trono di Dio

lanciò mio cor gli accenti,

che in murmure tremando

rispondono i torrenti,

e dalla ferrea calma

delle notti profonde

palma battendo a palma

ogni morto risponde.

Nel ’96 sulla linea di queste Odi enfatiche, legate al motivo del poeta-vate, si trovano altri componimenti (La morte di..., Il mio tempo, La Croce) in cui si mescola ad un equivoco impeto religioso (che solo nella Croce si scioglie nelle forme piú convenzionali di poesia confessionale settecentesca, rugiadosa e lucidata quasi in una via d’uscita piú facile e in un esercizio di scrittura piú esternamente accettato senza partecipazione personale e con quel gusto di bella pagina sonante e montiana che poteva essere il pericolo piú grave di questo giovane poeta) un atteggiamento antigiacobino ed anti-terrore per cui il Foscolo, difendendo il Monti nel 1798[10] per la Bassvilliana, poté forse ripensare a queste sue composizioni in cui è, fra l’altro, il regicidio come nella Bassvilliana:

(all’universo folle

un regicidio estolle – dice nell’ode Il mio tempo).

Ma si ricordi anzitutto che la condanna del regicidio, del Terrore e di Robespierre era facilmente accordabile in quegli anni (epoca fra l’altro di moderatismo del Direttorio e di sconfessione del periodo piú cruento della rivoluzione) con una generica fede democratica, antitirannica, e con la generale accettazione dei principî e della lotta pratica della rivoluzione francese e che molti “innovatori” furono sdegnati del “terrore” mentre molti innovatori moderati, come il Cesarotti, rimasero inizialmente ostili al regime francese da loro poi accettato con gioia. Simili posizioni (fede democratica e riprovazione del terrore) e simili ondeggiamenti erano comunissimi fra i letterati italiani e tanto piú potevano aver luogo in un giovane entusiasta in un periodo di formazione e di enfasi. Prima di una precisazione politica sicura – che è dell’essenziale periodo fine ’96, primo ’97 –, in questa poco chiara tensione etica e prepolitica con toni religiosi trovava prima espressione proprio il nuovo impeto foscoliano, la sua aspettazione di novità, la sua urgenza di portare la sua poesia a compiti di vaticinio, di impegno, e si delineava insieme la sua scontentezza di una letteratura arcadica e accademica, mentre ancora pur ne utilizzava gli strumenti di stile. Il suo furore, la sua passione, che si preciseranno praticamente nell’azione politica nel ’97 e che prenderanno poi precise forme di pensiero politico (anche se sempre funzionali sostanzialmente alla sua poesia), vivono già qui come qualità, allo stesso modo che i suoi fermenti sentimentali piú nuovi si erano rivelati in certi bruschi slanci, in certi momenti realistici dei sonetti per la morte del padre. E naturalmente questa aspirazione del suo animo ad esprimersi in lotta, agonisticamente, che esploderà poi nel Tieste, adopera ancora i mezzi che si trova a disposizione e, nell’impazienza che è tipica particolarmente di questo momento della sua formazione, adibisce ecletticamente (piú di quanto pur avveniva nella linea idillico-elegiaca) suggestioni e immagini bibliche (che piú resisteranno in lui), moduli poetici varaniani e montiani (e dietro di loro Klopstock e Milton nelle traduzioni italiane), in composizioni torbide, irruenti, incerte nella loro destinazione precisa, nel loro riferimento storico. Come nella trama de La morte di... (o In morte del duca G. C., come si legge nel manoscritto inviato al Fornasini) l’enfasi, l’eccesso mescolati alla grandiosità delle immagini bibliche

(Veggio l’empio seder amplo in suo orgoglio

qual di monte ombra in campo:

sublime al par di cedro erge suo soglio,

ma squarcia l’aer un lampo;

tosto il veggio tremar, piombar, sotterra

cacciarsi al divin foco:

invan lo sguardo mio cercandol erra,

nemmen conosco il loco)

offrono sí brutta, insopportabile letteratura, ma proprio nella loro natura esasperata, al di sopra delle suggestioni di una lirica enfatica sapientemente sonorizzata dal Monti della Bassvilliana, si avverte uno sforzo di espressione personale e profetica, irrealizzabile in quelle condizioni ma premessa del Tieste e degli impeti ortisiani, specie dopo la chiarificazione politica essenziale all’animo e alla poesia foscoliana.

Urlan le furie accapigliate, e intorno

stanti con folta notte,

ché alfine di putredine il soggiorno

con gli abissi t’inghiotte.

Pretesa ingenua, volontà di grandiosità tanto piú difficile in quanto voluta insieme sommaria e complessa, come il primo verso che vuole esprimere una impressione non semplice:

Odi che il bronzo rimbombando langue...

Son queste le punte che piú ci interessano poiché mostrano lo sforzo e il bisogno di originalità del giovane Foscolo e insieme l’ampliarsi delle sue ricerche nello stimolo delle forme letterarie del tempo, fra decoro sonoro montiano, grandiosità biblica (la Bibbia amata dai preromantici) e drammaticità alfieriana. Ed ecco di nuovo l’Alfieri, che in questi anni indica sempre lo sforzo piú intenso del Foscolo. Mentre la vicinanza del Monti suggeriva ammorbidimenti ed eleganza sonora, l’Alfieri, in coincidenza con l’impeto e il bisogno di energia drammatica, sprona il giovane scrittore ad inasprire e movimentare sempre piú i suoi versi.

Cosí il verso 21 era già alfieriano: «Vincesti: invan. Regnasti; e invan, superbo», ma nelle correzioni del «Mercurio d’Italia»[11] due interrogativi ne esasperarono la frattura e la drammaticità: «Vincesti? e invan. Regnasti? e invan, superbo».

Non era certo alla melodia che tendeva questo dominare le forze da lui imprudentemente scatenate!

Simile per ambizione, anche se piú scorrevole sull’onda di strofe classicistiche (già sperimentate nel loro congegno essenziale in prove precedenti, ma adibite a nuovi risultati di celerità e di rapida evidenza di inno), Il mio tempo può chiarire meglio l’atteggiamento spirituale del giovane Foscolo di fronte allo sconvolgimento della rivoluzione francese, che lo turba e lo eccita e di fronte a cui reagisce con confusa tensione, agita insieme motivi di orrore e di esaltazione apocalittica.

L’appello all’«insanguinata Croce», al Dio biblico «che l’aere / sol con un braccio occupa» confonde la sua esaltazione con quella della rivoluzione sentita nel suo carattere grandioso di rinnovamento. Non è tanto un “sí” o un “no”, quanto l’effetto di un turbamento, di una eccitazione che serví a scuotere le fibre piú intime dell’animo del Foscolo, provocò un risentimento vitale, dentro il suo esercizio di formazione, e la sua reazione intorno ad un motivo religioso invocato per la sua grandiosità (piú che il Dio cattolico, il Dio della Bibbia) era inevitabilmente avventata, valeva per il suo tono irrequieto, per il suo bisogno di grandiosità e di drammaticità.

E del resto non solo le particolari condizioni della civiltà italiana nell’ultimo Settecento (remore cattoliche e patriottismo letterario, sdegno per il “terrore” e insieme simpatie illuministiche e desiderio di riforme determinavano oscillazioni e sfumate reazioni negli oppositori e nei simpatizzanti), ma proprio l’atteggiamento dei letterati ufficiali e la retorica montiana, mentre offrivano in quel momento di inquietudine al giovane Foscolo un tono letterario di grandiosità omogeneo al suo stato d’animo ardente e generico, lo legavano in qualche modo e momentaneamente ai motivi propagandistici manifestati appunto in quel linguaggio grandioso ed enfatico; linguaggio che nello sforzo foscoliano diventa persino grottesco in una immaginosità eccitata e turgida:

Vien meco, o Eletta! a piangere

il soqquadrato mondo

ch’ode gli eterei fulmini,

e corre furibondo

a trar suoi giorni eterni

ne’ spalancati averni...

Per queste poesie il Carrer (op. cit., p. 234) parlò di «odore di chiesa» e arzigogolò di una educazione religiosa e di una prima inclinazione al sacerdozio su cui il Pecchio aveva sparso i suoi dubbi scherzi (op. cit., p. 27) e per cui il Tommaseo aveva cercato di costruire un primo momento cattolico negato poi con irruenza, a mostrare la contraddizione e la volubilità foscoliana. A parte gli studi assai brevi e in epoca infantile nel seminario di Spalato, non si può parlare per queste poesie di una posizione religiosa chiara e costruirci poi una specie di conversione filosofica e politica. Il Foscolo si fermò su posizioni piú precise in campo filosofico e politico dopo un momento di confuso fervore etico-religioso per cui Cicerone e il Vangelo erano a capo del suo Piano di studi. Nulla di piú: le punte piú esplicite nelle poesie per la monacazione (Il mio tempo e La Croce) sono le concessioni piú convenzionali ad una moda nelle sue forme piú esterne, ma per l’intimo del Foscolo gli echi religiosi, il senso messianico e apocalittico, i richiami a Dio – piú biblici che evangelici – celano soprattutto quel bisogno di riferimento a un senso alto, severo, della vita e al massimo un generico ed entusiastico spiritualismo sotto il quale c’era un senso del divino che non mancò mai nel Foscolo anche in mezzo alle sue affermazioni piú materialistiche, prive sempre del tono di irrisione scettica tipica di tanto pensiero settecentesco.

Se è eccessivo ricercare nelle sue lettere familiari (come fa il Donadoni: v. pp. 162-163 ss. del volume citato) precise testimonianze della sua religiosità (lo si potrebbe fare persino per il Leopardi!), è d’altra parte giusto osservare che al Foscolo non mancò mai il senso austero, il tono religioso della vita, il riferimento delle proprie azioni ad uno strato della coscienza in cui romanticamente poteva sentire, e senza ipocrisia, la voce della divinità, la voce di un dovere universale imprecisabile in una forma filosofica o dogmatica. Non cattolicesimo, non cristianesimo (che il Foscolo giudicò severamente come antieroico), ma, nella sua rivolta romantica e nel suo originario sensismo, la voce di una interiorità superiore al suo io particolare che gli permetteva di dire alla Donna Gentile: «io ho sempre sentito Iddio, e lo sento ora piú che mai» (Opere, VII, p. 183).

4. Il «Piano di studi»

Alla fine del ’96, dopo le esperienze fatte sulla direzione preromantica della tenerezza, della fantasticheria amorosa e del paesaggio sentimentale e sulla direzione piú equivoca e confusa del poeta-vate, della poesia grandiosa, carica di profezie e di sdegni, il Foscolo stendeva un breve scritto intitolato Piano di studi[12], in cui programma per il futuro e riepilogo dell’attività passata si uniscono in un momento di ricapitolazione e di scandaglio della propria cultura e attività, dopo anni di fervore disordinato.

Poche paginette che sono per noi interessanti non solo perché precisano e confermano tutta un’epoca di attività letteraria precedente la fine del ’96, ma soprattutto come prova di una volontà di autocritica, di sistemazione di cultura in vista di un’attività poetica su di un piano cosciente dei legami fra cultura e poesia e d’altra parte chiaramente orientato a confortare il carattere geniale e genuino di quest’ultima.

Ed è anzi questo carattere che colpisce anzitutto il lettore: queste pagine indicano uno sforzo di sistemazione di cultura e di letture come nutrimento dell’animo di un poeta in formazione, uno sforzo per appoggiare la sua poesia su di una esperienza culturale vasta e non puramente poetica, ma filosofica, storica, critica, e insieme la volontà di orientare tale sforzo (complesso e nuovo rispetto alle prime e piú limitate esperienze) verso una concezione della poesia e della vita fortemente preromantica: «genio», «anima», «passione», «cuore» sono i termini chiari di questo orientamento affermato quasi con gusto di polemica e di assicurazione interna e di affermazione della propria personalità originale in mezzo all’uso di tanti mezzi culturali, di tanti echi letterari non certo rifiutati, ma ora condizionati al primo accento, alla prima direzione dell’animo, del genio personale.

Già nell’avvicinarsi al Cesarotti il giovane Foscolo aveva accentrato, accanto al suo carattere di «anima sensibile» ed in accordo con questo, i toni da «rozzo entusiasmo», dell’anima «ardente e inerudita» («inni ineruditi, sí ma fervidi e passionati») e, sugli stimoli vivissimi del Cesarotti cultore del “genio”, del Bettinelli fautore di “genio” e di “entusiasmo” (nonché sull’equivoco appoggio della poetica montiana del grandioso e del sublime), aveva spinto quelle intuizioni preromantiche sino ad affermazioni sulla libertà geniale della grande poesia che fan già pensare a quel mito del “poeta primitivo” intorno a cui si organizzeranno piú tardi il pensiero critico e la poetica foscoliana.

In una lettera di Giuseppe Greatti al Foscolo del13 febbraio 1796 (il Greatti era uno studioso dell’ambiente cesarottiano, bibliotecario dell’Università di Padova), noi possiamo rilevare, nelle ammissioni di questo moderato che finiva per dar la palma al «giudiziosissimo Pope», quali fossero le affermazioni della lettera foscoliana (perduta) a cui egli rispondeva.

Avete ragione di misurare il merito di un’opera di spirito dal grado di sensibilità che mette in azione negli animi di coloro che la leggono o l’ascoltano: è verissimo che le regole sono le pastoie del Genio, che i precetti medesimi lo arrestano spesso e che l’imitazione, presa come suol dirsi comunemente, lo spegne, sto per dire, affatto... I poeti primitivi, Omero, Pindaro, Ossian non sono debitori che al loro genio delle loro produzioni, e a qualche favorevole circostanza, che ve lo destò. Per conseguenza il carattere della loro poesia doveva essere marcato da bellezze sublimi, qualche volta gigantesche, sempre passionate, e non rade volte frammiste a dei difetti, che vi rimbalzano sopra dei tratti divini che vi sorprendono. Senza l’abitudine di osservare, di distinguere, di confrontare e di scegliere, essi prendevano per bello tutto ciò che metteva in una grata e veemente agitazione il loro animo, e ciò che portava in altrui una commozione corrispondente alla loro (Epistolario, I, p. 22).

Il Greatti ammetteva, per poi innalzare vicino ai poeti primitivi i poeti della perfezione, come ammetteva gli elogi agli inglesi («Voi fate gli elogi ai poeti inglesi, e son ben giusti») per poi criticarli e salvare il «giudiziosissimo Pope» («Ma permettete, cotesti vostri inglesi hanno il gran difetto o d’imitar servilmente, o di essere piú straordinari ancora che originali»). Ma nelle frasi ammesse si può individuare questa esaltazione foscoliana del genio, del poeta primitivo contro ogni correctness popiana, da cui nel Piano di studi deriva quella specie di paura di non mettere abbastanza in chiaro l’esigenza della “genialità”, della “personalità”, dell’“indipendenza” nel momento stesso che giovanilmente si mettevano in programma letture a nutrimento dell’animo e della poesia.

Bisogno culturale e bisogno di originalità, di meditazione, di valutazione personale, e, insieme, bisogno di letture poetiche e bisogno di letture storiche e filosofiche.

Cosí la prima parte del Piano è occupata da indicazioni circa la «morale», la «politica», la «metafisica», la «teologia», la «storia» e sotto i singoli capitoli si legge: «Morale. Il Vangelo e gli Uffizi di Cicerone, ed osservazioni sull’uomo. Politica. Montesquieu e Contratto sociale di Giovan Jacopo [Rousseau, NdR]; e quel ch’è piú, anima indipendente e ponderatrice delle nazioni antiche e moderne. Metafisica. Entusiasmo d’anima e Locke ed André. Teologia. Sacra Scrittura. I – Avvertasi che, prima di meditare su questi libri, conviene concentrarsi piú volte in Bacone di Verulamio, di cui tutte le opere sono la chiave universale d’ogni filosofia. II – Che si deve scorrere la storia dei filosofanti, di tutti i secoli, per onorarli o deriderli [tono da Didimo Chierico!: fra baldanza giovanile e toni ironici di anni piú maturi c’è una continuità maggiore di quanto comunemente si possa pensare]. III – Che conviene fuggire la lettura d’ogni sorta di libro moderno che tratti di morale, politica, metafisica e teologia, prima di aversi sprofondato almeno per quindici anni ne’ libri citati, e piú di tutto nelle proprie meditazioni». Ed anche per la storia, nella ingenua sicurezza e presunzione di autoammaestramento, colpisce l’accusa fatta a Voltaire di scarsa meditazione in riferimento a questa propria esigenza di cultura e non di erudizione, di approfondimento personale e geniale («Tacito e Raynal. Chi volesse conoscere tutti gli altri popoli non esaminati da questi due “scrittori filosofi”, potrà scorrere Tucidide, Senofonte, Sallustio, Livio e Plutarco, mentre fra’ moderni basterebbe soltanto Midleton [Lyttelton, NdR] nella sua Storia delle Brettagne, giacché il signor Voltaire e tant’altri scrivevano molto, ma meditavano pochissimo. Non mancano altre storie pertanto che presentino l’epoche piú interessanti di tutti i regni, tra le quali la Storia universale e il Compendio generale della storia de’ viaggi del de La Harpe»).

Non occorrerà insistere sulla superficialità di certe indicazioni, ma interessa ribadire questa volontà di piú larga cultura alla base di nuove esperienze poetiche e questo esasperato bisogno di originalità corrispondente all’approfondirsi del suo animo scontento dei risultati fino allora ottenuti, e alle teorie del genio cosí vive nell’ambiente cesarottiano a cui il giovane Foscolo le attinse per portarle a conclusioni che poi spaventarono il prudente maestro padovano.

Anche in un capitoletto sulla critica e sulle arti affiora con forza questa richiesta di originalità, di personalità: «Longino, Poetica di Marmontel. E gusto innato di anima, senza cui tutti i libri di critica sono nulli». E sulle arti, in cui il giovane riprende i giudizi correnti neoclassici (in seguito invece, pur aderendo sempre meglio al gusto neoclassico nelle Grazie, farà riserve sui pittori-dottori pensando soprattutto a Mengs), insiste sempre sul genio non avvertendo l’urto che esisteva fra questa accentuazione preromantica e la punta piú neoclassica dei canoni accettati: «Arti. Pittura. Osservazioni attentissime su Raffaello, Coreggio, e Tiziano, ed opere di Mengs. Scultura. Cognizioni della Storia di Winckelmann, de’ poeti greci, e meditazione sui capi d’opera. Di altri studi non ho cognizione di sorta. In questo pure ci vuole quel genio divino, che costituisce la miglior parte dell’uomo, che innoltra la ragione alla cognizione delle cause, che innalza al sublime, che lumeggia gli aspetti della natura e del bello. Il genio, insomma»[13] (Prose, I, p. 4).

Nelle letture di «Poesia» (tale è il titolo sotto cui sono compresi poeti e prosatori) non si può trovare naturalmente la direzione univoca circa i modelli delle arti (in cui il Foscolo fu pienamente neoclassico: il suo occhio vide sempre nella direzione della bellezza greca, della figura umana e divina vagheggiata da Winckelmann e da Canova, del ritratto romantico-neoclassico di Appiani e Fabre, e del resto se il suo senso del geniale poteva porlo contro quanto c’era di pedantesco nel neoclassicismo, egli poté pur sempre rimanere affascinato dalla suggestione greca di perfezione che egli con ben altra originalità perseguiva direttamente nella poesia greca); maggiore eclettismo troviamo nelle sue scelte di letture piú direttamente letterarie che subiranno chiare modificazioni specie all’epoca della Chioma di Berenice, nel suo approfondimento maggiore della tradizione classica greco-latino-italiana e nel suo gusto europeo sempre piú sicuro al di là delle prime preferenze di sapore ancora inevitabilmente settecentesco.

Sono letture che ben accompagnano il suo lavoro poetico di quegli anni e soprattutto lo sviluppo dell’Ortis in cui le ritroveremo, ma a poco a poco concentrate intorno ad un gusto piú maturo e originale, per cui persino l’amato Ossian cederà, nell’edizione del 1802, il suo posto di poeta primitivo a Shakespeare.

Ma in quell’anno siamo soprattutto sulla linea cesarottiana e bertoliana fra preromanticismo prevalente e classicismo settecentesco. Ecco cosí fra gli epici: Omero, Ossian, Virgilio, Dante, Tasso, Milton; fra i lirici: Pindaro, Orazio, Guidi, Gray, Frugoni, Haller; fra i melici: Anacreonte, Tibullo, Savioli, Rolli (grande amore del Bertola[14]); fra gli amorosi: Petrarca, Saffo, Lettere di Abelardo ed Eloisa tradotte in inglese da Pope, in francese da vari, ed in italiano da Conti[15]. Le stesse designazioni di “generi” sono tipicamente settecentesche e la vicinanza di autori diversi indica l’eclettismo di quel periodo, pur nella prevalenza di testi preromantici di varia sfumatura, di fronte alla presenza meno costante di residui di gusto piú di primo Settecento (Frugoni, Guidi, Metastasio) in una scala ascendente da tenue classicismo, da Arcadia e da pindarismo rumoroso a testi sentimentali piú decisi, e a testi poetici piú essenziali. La cultura letteraria di un Cesarotti o di un Pindemonte passa nel Piano di studi con autori non sempre direttamente conosciuti dal Foscolo (quanto di Goethe, piú della traduzione wertheriana del Grassi? quanto di Klopstock, piú delle traduzioni del Bertola nel Saggio sulla poesia alemanna? quanto di Shakespeare, oltre le traduzioni del Conti?).

Queste indicazioni di letture sono in generale conferme degli echi direttamente sentiti nelle poesie giovanili precedenti e premessa della cultura letteraria in cui si svolge l’Ortis, specie l’Ortis bolognese tutto appoggiato, anche esplicitamente nelle numerose citazioni, ad esempi letterari tanto da costituire una silloge di motivi e sfumature della letteratura di ultimo Settecento nella ripresa centralmente originale del Foscolo.

Ecco da una parte i «pastorali» e i «campestri» (Teocrito, Sannazzaro, Gessner, Thomson e Bertola), ecco dall’altra i «didattici» (Georgiche, Scaccheide, I piaceri dell’immaginazione), i «satirici» (Riccio rapito, Lutrin, Parini), i «tragici» (Sofocle, Shakespeare, Voltaire, Alfieri) e nella categoria dei «romanzi»: Ariosto, la novella della botte di Swift, Cervantes, Pignotti e «Telemaco, Amalie, Nouvelle Héloïse», a cui, con un «si potrebbe» significativo per le naturali incertezze del giovane letterato, si aggiungono «gli antichi scrittori di favole, Richardson, Arnaud e Goethe», come ai poeti in genere si propone l’aggiunta di Monti, Klopstock e Young.

La maggior parte degli autori piú celebri in quegli anni è presente nella raccolta del giovane Foscolo come base di lettura in vista della sua poesia, in uno studio in cui, riprendendo le piú diverse esperienze dei suoi primi anni, egli tenta una piú decisa conversione all’interno, ben indicata dalle parole iniziali sulla necessità di «personalità» geniale e indipendente. A parte certi accostamenti piú curiosi (antichi favolisti e Richardson), l’apparente disordine di questo piano non è in realtà che l’ordine dei piú noti quadri letterari e panorami di quegli anni, insaporito in questo caso dalle parole prima sottolineate e dell’accentuazione, fra le opere dell’autore, di quelle che piú specificano l’urgenza di espressione totale e “geniale” di un mondo di sentimenti mosso nella direzione della sensibilità preromantica piú che in quella della grazia classicistica pure acquisita dai primi esercizi e invocata dall’indicazione di certi testi di lettura.

Nella parte della produzione, fra le «prose originali», in mezzo a progettati saggi filosofici (L’uomo e la verità sotto nome di Von Olocsof, e «Logica per me stesso: tratta da Lock, dal Volfio e dalla natura»), a vari saggi «sull’ecloga, sulla poesia pastorale» e «parallelo tra il Pastor Fido e l’Aminta» (da ricollegarsi alla linea bertoliana e al motivo idillico campestre), spicca un’opera «ideata soltanto ora, da compirsi dopo qualche anno: Storia filosofica della poesia dal secolo duodecimo sino al decimonono» (inizio degli interessi storico-critici del Foscolo e del suo sforzo di rendere filosofici i suoi studi dopo un primo periodo puramente letterario), e, fra le «Prose varie», sono da rilevare le Annotazioni alla Perfetta poesia del Muratori e le Annotazioni a gran parte del Petrarca (mosse evidentemente dalle prime) come fra le «Prose tradotte» son da notare il Contratto sociale e i primi tre libri di Tacito. Ma soprattutto ha particolare rilievo quel Laura, lettere che, preceduto da simili prose idilliche e sentimentali (Lettere ad una fanciulla, La riconoscenza, La solitudine, Racconti morali), è cosí commentato dall’autore: «Questo libro non è interamente compiuto, ma l’autore è costretto a dargli l’ultima mano, quando anche ei nol volesse».

Che significa questa nota? Evidentemente, sull’aria di sentimentalismo e di originalità «naturale e spontanea» di queste pagine, essa vuole indicarci l’urgenza di un mondo sentimentale ad esprimersi quasi anche contro la volontà dell’autore, con la prepotenza di un impulso geniale e di un motivo vitale e vissuto. Sono le parole piú decise di questo Piano e, mentre segnano per noi la prima origine dell’Ortis in quanto quell’opera ha di “storia di un’anima”, si ricollegano bene all’accentuazione di originalità personale data dal Foscolo alle sue letture e alle sue meditazioni alla fine del suo primo noviziato poetico.

Tra i versi, accanto alle versioni con molti pezzi rifiutati (poteva interessarci una versione dal III libro di Milton forse esemplata sulla versione del Rolli a base delle poesie di tono grandioso), compaiono le poesie già note a noi dalla raccolta Naranzi, le odi del «conio dell’autore» con qualche aggiunta e con la nota: «Tutte queste odi esigono la lima di molti mesi», e poi, fra le cose che non ci sono giunte, esercizi diversissimi (Parodia delle odi di Pindaro. Oda mosaica. Capitoli vari fidenziani, Epigrammi, scherzi, ecc.), il poema Il genio, «incominciato, ma da compirsi dopo dieci anni»(!), e vari sciolti e canti in terzine che dovevano inquadrarsi fra le Rimembranze: canti in terzine e in isciolti, L’Amore, terzine; La Notte, terzine; La rimembranza, terzine; La Morte, sciolti; Le Ore, terzine; Il tempietto, sciolti; Amore, sciolti; I deliri, sciolti; Il Piacere, canti tre in terza rima; oltre al canto politico Robespierre.

Infine fra le tragedie: Tieste, Edipo: «recitabile, ma da non istamparsi», Issione, i Gracchi: «tragedie meditate».

Ed è nel Tieste che, in quell’epoca di fermento e di urgenza espressiva, il Foscolo trovò il primo risultato notevole di questi anni di adolescenza.

5. Il «Tieste»

La prova piú decisa, in quel periodo di confusa impetuosità, di ricerca di poesia personale e vitale sull’orlo di una conversione all’azione politica e a un’attività poetica che di quella fosse espressione, in quel torbido tumulto di sentimenti ribollenti nelle farraginose poesie fra eloquenti e “personali” e religiose, è certamente rappresentata dal Tieste che nella fine del ’96 trovò definizione drammatica dopo un lavorio cominciato sin dall’anno precedente[16].

In questo periodo di maturazione irrequieta, che doveva trovare uno sbocco pratico nell’attività politica e negli impegni iniziati nel ’97, il Tieste rappresenta anzitutto e soprattutto il tentativo piú ricco, unitario, prolungato di esprimere poeticamente l’ansia di affermazione, di rivolta alla mediocrità impersonale di una società sentita ormai nei suoi limiti piú che nella sua vivace eleganza, di insofferenza di una cultura letteraria equilibrata ed eclettica a cui sino allora il Foscolo aveva attinto esempi, incoraggiamenti e su cui aveva perfino fermato immagini, modi di costruire essenziali alla sua poetica ed ai suoi strumenti espressivi. Ed è proprio tale sua origine sentimentale ma non extrartistica (ché la sua era ansia di affermazione e di rivolta, ma insieme ansia di espressione, di definizione poetica del mondo in lui urgente) che dà a questa prima opera di maggiore envergure un posto essenziale nel noviziato poetico del Foscolo, ed è prima giustificazione della sua stessa particolare drammaticità, funzionale realmente ad una capacità e destinazione lirica. Voglio dire che il giovane Foscolo si volse alla tragedia e tentò di fare un’opera teatrale non solo per quella generale volontà di esperienza delle forme letterarie del suo tempo, per la sollecitazione particolare dell’ambiente teatrale veneziano e per l’amore e la predilezione del secolo per il «genere perfettissimo» (caduto il favore del melodramma, giustificato anch’esso del resto soprattutto da un punto di vista tragico per cui Metastasio era senz’altro «il nostro Sofocle»), ma anche per la possibilità di caratterizzazione e precisione del suo mondo sentimentale, di continuità e ampiezza di sviluppo ai suoi ardenti e incerti fantasmi poetici che la tragedia gli offriva, in rapporto allo stato d’animo di tensione, ripugnante alla concisione di un breve componimento lirico ed allo sviluppo rettilineo, meno dinamico e meno esternamente strutturato di un poemetto di qualsiasi tipo.

La tragedia affascinò il giovane Foscolo (e piú tardi tenta inutilmente il poeta maturo alle soglie delle Grazie, prima della scelta definitiva dell’inno già provato nella condizione eccezionale dei Sepolcri) sia per la sua suggestione eroica, sia per l’offerta di costruzione in tensione e pur già esternamente rinforzata e regolata dalla sua funzione teatrale, dalla sua articolazione in atti e scene, in personaggi che potevano raccogliere, ordinare e potenziare sentimenti autobiografici, permettere l’utilizzazione di sfumature sentimentali, di velleità e di sogni in diversi momenti e gradazioni di scene o di personaggi. In realtà, quest’impulso al drammatico, genuino nel suo motivo centrale (espressione del proprio animo in lotta, in posizione di contrasto, reazione anche all’eccessivo abbandono idillico dei primi anni), fu solo parzialmente realizzato in questo periodo giovanile, in cui però esso appariva tanto piú necessario e giustificato dalle condizioni di quegli anni.

Nell’epoca piú natura il Foscolo cercherà – pur sulla scorta essenziale e congeniale dell’Alfieri – di creare una tragedia “sua”, di appoggiarla persino ad una teoria drammatica che egli credette nuova e contrapposta a quella del dramma romantico manzoniano (e lo vedremo parlando di Ajace e Ricciarda), ma in questo periodo la ricerca del dramma fu piú ingenua, piú istintiva e piú giustificata dalle ragioni esterne ed intime già indicate: desiderio di affermazione sugli schemi piú amati dal suo tempo e piú vistosi (e piú vicini persino a quella possibilità di azione e di affermazione tribunizia a cui si volse poco dopo nelle propizie circostanze della breve vita della repubblica democratica veneta) e insieme, piú in profondo, desiderio di affermazione personale e di costruzione del suo tumulto intimo in una omogenea espressione di tensione e di lotta ed in una struttura tradizionalmente ferrea, ordinata nei suoi momenti e gradi essenziali.

Si può negare senz’altro un’ispirazione drammatica al Foscolo del Tieste e al Foscolo in generale? Lo si può solo a patto di rilevare però un tono drammatico allo scatto iniziale della sua lirica, in cui esso si fonde con quel piglio di magnanima eloquenza che costituisce il primo modo di distacco dal facile idillio o dalla fantasticheria o dalla continuità esternamente melodiosa di tanta produzione di quel tempo a cui pure egli ha attinto esempio e ripreso avvii essenziali per la sua prima produzione poetica e per l’Ortis.

Sin da questa tragedia giovanile[17] si vede chiaramente che il Foscolo non sentiva il teatro che nei suoi termini piú vaghi e soprattutto come pretesto di momenti lirici, come base di tensione e di movimento che rimarrà poi sempre essenziale nel Foscolo, piú scoperta o piú segreta, piú dominante come nell’Ortis milanese o nei Sonetti, piú dominata e sciolta in totale poesia nei Sepolcri e soprattutto nelle Grazie. In tal senso si può capire la estrema importanza indicativa del Tieste nel suo fallimento di tragedia (malgrado il successo notevole di cui godé nelle rappresentazioni veneziane in coincidenza con l’irrequietezza indistinta di quelle giornate di attesa di rivolgimenti e di novità) e nella sua natura di esplosione lirico-oratoria su base drammatica, di rivelazione di maggiore intensità sulla guida di un furore sentimentale che solo drammaticamente poteva trovar il suo avvio, la sua prima giustificazione e la sua stessa possibilità di espressione senza compromessi e senza l’equivoco ausilio di mezzi stilistici eterogenei e disadatti.

Non esamineremo perciò il Tieste da un punto di vista di “tragedia”, di “teatro”, come si tentò in altri tempi da parte di studiosi legati alle distinzioni dei generi e quindi portati a considerare il Tieste piú in relazione ad Ajace e Ricciarda nel problema del teatro foscoliano che non nel suo valore poetico generale e nella formazione della poesia foscoliana, in cui occupa un posto ineliminabile in vicinanza e quasi di preludio dell’Ortis.

Ben poco ci dice cosí la sicura lettura dei Pélopides di Voltaire o del Thieste di Crébillon da cui il principiante poté riprendere la sagoma esterna di alcuni personaggi ed alcune astratte situazioni (ad esempio, i personaggi di Ippodamia e di Erope): e semmai qualche stimolo piú omogeneo ed insieme equivoco poté venire al Foscolo dal secondo con il suo “orrore” macchinoso ed artificioso. Un solo insegnamento fu certo presente al Foscolo, estendendosi al di là della costruzione tragica a sollecitazione del suo spirito romantico nella sua prima espressione totale ed estrema: quello dell’Alfieri, a cui già il Foscolo aveva pensato nel ’95 di dedicare le prime Odi di «suo conio» e che si propose di imitare come tragico e di esaltare con la sua opera di fronte ai veneziani («un anno prima della caduta della repubblica di Venezia, il Foscolo comincia la sua carriera letteraria con una tragedia intitolata il Tieste. Irritato del poco conto che i Veneziani facevano delle tragedie dell’Alfieri, preferendo ed encomiando con gusto corrotto quelle del marchese Pindemonte [Giovanni] e del conte Pepoli, risolvé di limitare al solo numero di quattro i personaggi del suo dramma, onde dimostrare che per la semplicità del piano, e per la severa parsimonia nel dialogo, le tragedie degli antichi, e quindi le alfieriane, sono le sole da imitarsi». Dal Saggio sullo stato della letteratura italiana nel primo ventennio del secolo XIX scritto in inglese dall’Hobhouse su testo foscoliano)[18].

Ma in realtà, se la giustificazione della “imitazione” è generalmente esatta ed indica bene la reazione salutare del giovane Foscolo al gusto fiacco ed eclettico rappresentato dall’autore minore Pindemonte, sulle linee di struttura decisa, essenziale, rapida e “classica”, rappresentate dalla tragedia alfieriana, piú in profondo il poeta sentí unitariamente l’esempio di un vigore costruttivo e di un impeto legato ad una rivoluzione spirituale impegnativa, e perciò ben diverso dall’onda sonora del Monti, dalla sentimentale suggestività dell’Ossian e tanto piú da deboli compromessi fra classicismo e preromanticismo di Bertola o Pindemonte, anche se questi a quello potevano averlo condotto piú del canto arcadico-vittorelliano o della precisione savioliana attraverso complicate sfumature che in questo momento piú appassionato e piú deciso vengono superate e riassunte in mosse piú energiche, in frasi piú violente e coerenti nel loro estremismo piuttosto clamoroso e fremente, realizzato in tinte oscure, in sfoghi esuberanti con scarsa possibilità di gradazioni e di complessità. Ingorgo di sentimenti e di fermenti cresciuti in quegli anni agitati piú violentemente e incanalati nella saldezza un po’ esterna e grossolana di una struttura ripresa da tragedie dove essa risultava da una conquista matura e da esigenze personali ben piú precise ed elaborate.

Portato all’Alfieri da una sostanziale simpatia che mai lo abbandonò (anche se dell’Alfieri si accennano i limiti di espressione e i pericoli del suo insegnamento: «può far dar nell’aspro») sino alla trasfigurazione eroica e romanticissima dei Sepolcri (che ha dietro i bellissimi aneddoti sulla malinconia e la furia del grande tragico nella sua chiara spiegazione piú che politica), il giovane Foscolo sentí dunque nella tragedia alfieriana l’offerta di una salda struttura “classica”, di un omogeneo inquadramento semplice ed essenziale – non dispersivo – dei suoi fermenti fin allora cosí puntualizzati in diverse espressioni o contaminati con sonorità ed immaginosità accettate per eccesso in una pericolosa approssimazione, e insieme caricò il suo momento di irrequieta ansia con l’esempio di soluzione drammatica che – con diversa vocazione e maturità – lo stesso Alfieri aveva sentito particolarmente adatto al suo animo diviso e bruciante di lotta.

Quelle tragedie senza pausa e senza indugi realistici, in cui la stessa oratoria era velo di esasperata volontà di azione (senza descrittivismo e senza pittoresco, senza compiacimento di belle parlate), in cui le tinte oscure, gli scenari lividi e vuoti su essenziali stilizzazioni classiche toglievano ogni possibilità di frivolezza, di ornamentazione, di descrizione, ossessive nell’azione impostata per la catastrofe e nel linguaggio senza dolcezza e senza sorriso, dovettero apparire, insieme al ritratto dell’Alfieri uomo libero e poeta di libertà, nuovo petrarchista romantico e appassionato amante, una provvidenziale realizzazione del suo tormento sentimentale ed espressivo in un momento che nell’Ortis tornerà a graduarsi, ad assicurarsi pause distensive, idilliche, mentre si caratterizzerà ben piú potentemente ed originalmente nelle sue punte piú risolute e romantiche.

Naturalmente dell’Alfieri son risentite le tragedie meno complesse (Saul e Mirra) e piú quelle di scena classica e di tensione cupa e violenta: e non solo per l’azione e per i personaggi (poco riusciti questi, come quella si brucia spesso in esasperato clamore o cade per stratagemmi teatrali male applicati: come alla prima scena dell’atto terzo), ma piú per la generale atmosfera di ossessione, che si esprime soprattutto in immagini, invocazioni, motivi lirici ripetuti senza risparmio.

Si pensi ad alcuni versi dell’Oreste alfieriano (nella battuta di Elettra all’inizio della tragedia):

Notte! funesta, atroce, orribil notte

presente ognora al mio pensiero! ogni anno,

oggi ha due lustri, ritornar ti veggio

vestita d’atre tenebre di sangue[19].

e si capirà non solo la suggestione riportata dal Foscolo nella sua lettura alfieriana, ma il punto centrale dell’origine del Tieste che si svolge o – meglio – si accumula in una cupa aura notturna, in un silenzio orrido intorno ad alcune immagini rapprese sostanzialmente in parole rudemente simboliche, che poi nell’Ortis e nelle opere successive torneranno depurate dal loro accento piú torbido e ingenuo, ma cariche sempre dell’incontro essenziale in esse avvenuto fra tutto il gusto preromantico culminato nell’Alfieri e il personale sentimento foscoliano. È in questa tragedia di schema e di personaggi classici che – piú violentemente ed esteriormente che non nel grande Alfieri – si esprime una specie di sentimento “sturmundranghiano”[20] a cui l’equivoca suggestione dell’incesto (in realtà Erope era promessa a Tieste, ma il sapore dell’incesto rimane ad accrescere il torbido fermento dell’opera) contribuisce indubbiamente esaltando la passione incontenibile, il furore di amore e di odio. In realtà, una volta ammessa la scarsa forza dell’azione tragica e la debolezza dei personaggi, la tragedia rimane viva proprio alla lettura (contrariamente al giudizio di Foscolo-Hobhouse: «Il Tieste foscoliano tuttavia comparisce sulle scene sostenuto dall’animato suo dialogo e dalle fortissime tinte con cui sono colorite le passioni de’ personaggi; ma il suo stile aspro e contorto ne rende penosa e quasi insopportabile la lettura», Opere, XI, p. 287) nel suo generale fervore piú incanalato e sorretto dalle linee dell’azione tragica, dalla persistenza di una scena e di pochi nodi essenziali e, dentro l’atmosfera generale, negli spunti lirici che erompono intorno a pochi motivi giustificati e sostenuti drammaticamente anche se incapaci di costituire un vero tessuto drammatico.

I temi essenziali coincidono con le parole che piú frequentemente e quasi con presentazione taumaturgica ricorrono nel Tieste: soprattutto «notte» e «morte», con il seguito di parole e di immagini omogenee e subordinate: «tenebre, «silenzio, «sangue», ecc., oltre a quelle piú chiaramente alfieriane di «odio», «vendetta» e «libertà», insieme alla parola-motivo «amore», quasi mai scompagnata da una accentuazione di dolore e di fatale catastrofe.

Il motivo della «morte» sullo sfondo della «notte» (come ricordo della notte d’amore da cui nasce l’angoscia che pervade tutta la tragedia e come presente colore ossessivo su cui sempre il Foscolo insiste a creare un tono cupo e misterioso) è, al di sotto del motivo politico e di quello amoroso piú vistosi, ma piú esteriori e meno efficaci, il vero motivo animatore del Tieste, il motivo che corrisponde allo stato d’animo esasperato, intensamente drammatico del Foscolo in un particolare momento di eccitazione che prelude alla fremente, appassionata attività rivoluzionaria in cui sembrerà chiarirsi in parte la tensione piú confusa che saliva dalle odi del «conio dell’autore» e che nel Tieste ha raggiunto la sua punta estrema ed ha trovato un’espressione tanto superiore a quelle prove precedenti.

E tanto piú è chiaro tale direzione e tale valore del Tieste quando lo si consideri piú che da un punto di vista tragico teatrale come testo tragico-lirico da esaminare come lettura, per la sua generale atmosfera, per i suoi spunti lirici e per il linguaggio poetico foscoliano in formazione.

Se persino per le tragedie alfieriane si è modernamente consigliata una lettura, piú che una recitazione, tanto piú tale consiglio vale per il Tieste, che misurato nella sua efficacia teatrale è ben inferiore all’impressione che tuttora può produrre una lettura che tenga conto del suo orientamento lirico e della sua vitalità di atmosfera generale e di motivi lirici nella loro preromantica drammaticità cupa e ossessiva piú che di uno svolgimento tecnicamente tragico, di una azione e di una vita organica dei personaggi.

E fra i motivi, come dicevo, il piú profondo e genuino è quello dell’incubo, dell’angoscia della morte presentita, temuta e desiderata in tutta la tragedia e che per intensità supera i motivi piú espliciti della passione politica e della passione amorosa che pure han luogo nel Tieste e preludono contenutisticamente alla doppia passione dell’Ortis, cosí come in parte il giovane Tieste è anche abbozzo assai elementare di Jacopo, autoritratto di un Foscolo ben altrimenti sicuro e complesso.

Che forza e che importanza ha il motivo politico? Nella figura e nelle espressioni del tiranno Atreo è assai fiacco e scolastico (sul figurino alfieriano): le parlate di Atreo come affermatore della “ragion di stato” e della inevitabile crudeltà dei re (la Tirannide e le tragedie alfieriane di libertà) sono le piú fredde ed inutili della tragedia ed anche quando Atreo è investito dalla generale atmosfera eccitata e cupa, che lo trasforma in un maniaco ambizioso e geloso, la sua espressione di “superuomo” è guastata ancora dalle goffe battute del “re” senza cuore ed assorto nella difesa della regalità

(e tremi ognun che offende

d’un re i diritti, che, quai sien, son sacri.

Il re non dorme: s’ei non vegliasse, guai!)

(At. III, sc. 4).

Né ha sviluppo l’accennato contrasto fra ragion di stato e affetto filiale

(... io quindi

dareilo pronto [l’aiuto], ove temprar potessi

cotanta angoscia, e del regale nome

assicurar la maestà: ma impresa

è malagevol questa, e non concorda

ragion di stato a imbelle affetto)

(At. II, sc. 5).

Ed anche in Atreo le espressioni piú intense son quelle rare in cui, pur nella sua ipocrisia assai convenzionale, lascia intravvedere l’angoscia che lo occupa e lo ricollega cosí al tono piú vero della tragedia:

tutti i miei pensieri eran di morte

(At. V, sc. 3).

D’altra parte anche il motivo di libertà (interessante per il primo presentarsi del doppio motivo politico e amoroso dell’Ortis) è piú promettente di quanto in realtà non mantenga: si presenta chiaramente solo nell’atto quarto e si riduce tutto sommato a poche battute di Tieste, che, importanti per l’animo dell’autore e del suo pubblico in giorni cosí particolari, hanno nella tragedia scarso sviluppo e non riescono a costituire un elemento poeticamente e tragicamente necessario: certo contribuisce anche questo motivo ad accrescere la tensione del motivo essenziale della sventura e della morte. In realtà Tieste sarebbe pronto ad accettare il perdono del fratello e il suo sdegno di tirannicida potrebbe scendere a compromessi, una volta appianato il dissidio riguardante Erope e il fanciullo, e le sue tirate antitiranniche vivono un po’ lateralmente, piuttosto enfatiche, e il loro maggior vigore è in rapporto a quella poesia polemica, tribunizia che stava per erompere dal suo animo e dalla sua nuova esperienza politica. Nella tragedia le battute politiche sono nettamente inferiori alle parlate ispirate al motivo dell’orrore e della morte.

Oh come l’arte

del tiranno possiedi! in cor furore,

pace nei detti: comandar misfatti,

e punirne il ministro: e vita e fama

tôr, per rapir sostanze: adoprar fraude,

ove spada non val: pietà con pompa

mostrare e bever sangue. Oh! ben t’adatti

il regal manto! ei ben ti copre! regna,

ché tiranno sei vero

(At. IV, sc. 4).

Tieste – figura giovanile e poco formata, pur nella direzione dell’autoritratto foscoliano – vive assai poco come tirannicida e nella ingenua riappacificazione con Atreo si scusa delle intenzioni sanguinarie nei riguardi del fratello che pur rimane “tiranno”:

Giovin alma ardentissima a funeste

opre m’addusse: a pentimento vero

or mi ti guida...

(At. V, sc. 3).

Ripeto, non è certo il motivo politico – pur cosí interessante e pronto a svolgersi piú risolutamente – che anima Tieste e tutta la tragedia. E Tieste ben piú di Jacopo è soprattutto l’«anima ardentissima» del Foscolo piú giovanile: disposta a precisazioni non ancora venute. E se la sua piú simpatica luce è questa ingenuità esuberante, anche la sua vita poetica si risolve nel tono preromantico di incubo e di morte che supera le singole determinazioni di personaggi e rivela il motivo piú fondo dell’animo foscoliano in questa fase accesa e poco determinata.

Ché tale è l’importanza del Tieste: nato da esigenze di costruzione (come la tendenza contemporanea al romanzo che regge nelle varie redazioni dell’Ortis a meglio contenere l’arricchimento e l’urgenza dell’animo) e da esigenze di sfogo piú intenso, quest’opera, cosí ricca di movimenti lirici, di versi che su base alfieriana mostrano già chiare qualità foscoliane, rappresenta uno sfogo acerbo fra lirico e sentimentale di fronte a cui l’Ortis rappresenta arricchimento, precisazione, e insieme dominio molto piú sicuro e maturo.

Voglio dire che una lettura del Tieste fa meglio sentire e la complessità di preparazione dell’Ortis maggiore e la sua relativa maturità rispetto a questo periodo formativo in cui si realizzava lo sfogo piú acerbo, la confessione piú generica e impetuosa.

L’altro motivo che si affaccia con maggiore chiarezza nel Tieste è il motivo amoroso.

In una parlata di Tieste ricorrono versi di maggiore abbandono:

La soave idea

di rivederla mi trattenne, oh quante

volte! sul margo della tomba, in punto

che già volea precipitarmi! Alfine

mendico e oscuro mi ritrassi in Delfo,

vivendo in pianto

(At. II, sc. 2)

ma, a parte questo momento, il tono predominante del motivo amoroso è quello di «amore e morte»

(Or quella

non se’ tu che giurasti amore e morte?)

(At. IV, sc. 2),

e si confonde cosí facilmente con il tono dominante dell’orrore e dell’incubo di anime dominate dalla loro passione, anch’essa cupa e legata ad un’immagine cupa (l’immagine di una tragica notte d’amore: «l’atra notte di sventurato amor»), ma ancor piú dominate dal terrore, dalla consapevolezza della impossibilità di un esito sereno del loro amore. Tieste – “anima sensibile” – è posto in situazione tale da eludere i toni dell’elegia e dell’idillio a tutto vantaggio del motivo dell’eroe sfortunato, del vinto dalla sventura, dell’uomo onesto e puro “naturalmente” infelice e destinato a rovina nella sua ribellione al tiranno e al fato.

E quindi anche nelle sue espressioni amorose (specie il dialogo con Erope – il piú ambizioso della tragedia per volontà di complessità sentimentale e persino di colpo di scena sentimentale: Erope che finge di odiare intensamente Tieste e poi, sopraffatta dalla commozione, rivela un amore altrettanto intenso) il Foscolo punta qui su motivi esasperati. L’amore non porta dolcezza, ma solo tensione, e cosí il tono dominante resta, anche in questa direzione, quello dell’orrore, della morte, di una infelicità inevitabile: ed è su questo tono che, come abbiamo detto, le parole foscoliane assumono il loro valore lirico a base drammatica.

Ed in Erope (dominata ancora dall’amore, piú che questa passione per Tieste che non la rende tanto coraggiosa da ribellarsi al re-marito, implicata com’è in uno stato d’animo fra ribelle e reverenziale, fra coscienza di colpa e di incoscienza, fra richiami di passione e volontà di evasione ad ogni costo) è soprattutto l’angoscia dei delitti passati e futuri, il richiamo della morte, della disperazione, la voluttà persino della sventura e della notte in cui tende sempre ad immergersi, che si esprimono nelle sue parlate: e al solito l’amore compare sempre come incubo truce, come ricordo di peccato e causa di tormento, come una maledizione che trascina l’animo al desiderio della morte. In questo senso lo sforzo del giovane autore è tutt’altro che trascurabile ed indica una complessità psicologica che, pur non risultando a capacità di sfumature e di gradazioni precise, arricchisce la tensione disperata di questi brevi spunti lirici dell’ossessione e dell’angoscia. Basti la prima scena del primo atto in cui Erope ci si presenta sul punto di uccidere il figlio, e tutta scossa da movimenti contrastanti, ma convergenti nel desiderio di evasione attraverso la morte:

D’empi rimorsi oggetto, infausto, caro

pegno d’amor, de’ miei delitti o negra,

o spaventosa imago!... Oh! vien, pur veggo

in te il conforto mio. Figlio, tu acerbo

finor mi fosti, e forse... ahi! quanto acerbo

piú mi sarai! Ma già su te l’estreme

lagrime spargo. O notte, orrida notte

di profanato amor! volgon cinqu’anni

che ad ogni istante a comparir mi torni

da mie vergogne avvolta; e mi rinfacci

il vïolato talamo, la fiamma

che accesero le Furie, e che m’avvampa

tuttor nel sen; mi rode, e viver fammi

vita d’inferno. O figlio, o di Tieste

sola e trista memoria; io t’amo; e sei

tu di me degno e dell’infame casa

in cui scorre tuttor sangue di padre...

Affascinata da quell’immagine incestuosa e fatale, combattuta fra odio e amore

(... Lo scaccio

da’ miei pensieri; ei la cagion di tutti

i miei disastri, ei fu; ei mi sorprese;

ei violò di suo fratello il sacro

talamo nuziale... Ah! tutto, tutto

io rimembro, ma invano; e invan lo scaccio,

ch’ei qual despota torna, e a’ primi ardori,

e ad altre colpe mi sospinge, ed io

fra gli attentati ondeggio e fra i rimorsi)

(At. I, sc. 2),

Erope vive nel tono dell’incubo e, se nel finale il suo allibimento di fronte al sangue ha qualcosa di ingenuo, tuttavia ben corrisponde alla sua lirica dell’incubo del delitto, della passione per la morte inevitabile e desiderata.

Ma, come dicevo, questi motivi, politico e amoroso, vivono essenzialmente del motivo piú intenso dell’incubo, della disperazione e della morte ed è da questa base e dalle parole che simboleggiano questo stato d’animo che nascono sia l’atmosfera generale che gli spunti lirici piú vivi e validi della tragedia.

Come ugualmente i personaggi raramente assumono un carattere fortemente determinato, tutti ugualmente trascinati dall’impeto eccessivo dell’opera, e raramente un motivo piú elegiaco si fa luce in qualche parlata di Ippodamia, la vecchia madre dei fratelli nemici, come nei versi della seconda scena del secondo atto, in risposta a Tieste:

E il chiedi?

Testimoni gli iddii, che tanto acerbi

or son con noi, de’ miei sospir, del pianto

furon essi dal dí che tu volgesti

infausto il piè dalle paterne case.

S’io ti son madre? Ah! il tuo sospetto estingui,

e in me ravvisa Ippodamia, la mesta,

la sciagurata madre tua. Te chiamo

nelle vegliate notti, e di te piango

con Erope tuttora. Eppur m’è forza

tremar, se a me veggioti appresso: io scelgo

pianger senza di te, che strazio e morte

vederti...

Lo stesso personaggio di Tieste (ma si guardi che molto spesso il “libertario” Tieste e il machiavellico Atreo si scambiano gesti e propositi, come avviene a volte anche per Erope e Ippodamia) in realtà vive solo nei tratti piú generalmente foscoliani, nei suoi sfoghi lirici, meno caratterizzati da precisi motivi politici o passionali, e la confessione autobiografica piú vera, piú che in un intero personaggio, è nei motivi di furore, di orrore, di angoscia che circolano in quella figura e in tutta la tragedia, e che si realizzano nell’atmosfera generale e nei momenti piú capaci di espressione lirica. Ed è in quei momenti che, secondo l’osservazione del Carrer già citata, il Foscolo veniva formando il suo verso meglio che nelle prove precedenti piú parziali, proprio in questa offerta di maggior calore, di unità di tono, e sulla base di uno scatto drammatico che portava a piú alto grado la complessità e la tensione della lirica musicale del suo verso.

O notte, orrida notte,

di profanato amor! volgon cinqu’anni

che ad ogni istante a comparir mi torni

da mie vergogne avvolta; e mi rinfacci

il vïolato talamo, la fiamma

che accesero le Furie e che m’avvampa

tuttor nel sen...

(At. I, sc. 1)

La tecnica alfieriana, con le sue spezzature e ripetizioni, con le sue inamene dissonanze, con la sua violenza di parole e di suoni, traccia la strada di questa lirica drammatica, nelle sue forme piú convenzionali

(Non è ancor caldo

il ferro, ond’ei sotto amistà mi spense

il genitor? non odi aspre parole

di menzogna e rimbrotto? irati sguardi

non vedi in fiel cospersi? obbrobrioso

ripudio?... atre, rattenute minacce?

il suo cor? tutto, tutto?...)

(At. I, sc. 2),

nelle imitazioni di spezzettamento nelle parlate e di ritmo interrotto

Erope:

Or prendi.

Ma... oh Dei!... deh!... deh mi lascia!... Almeno, o madre,

seco lui fuggirò... Romita ancella

purché sia con mio figlio... Ah lascia! E dove?

Dove tu il condurresti? Atreo! di troppo

ti fidi tu... No, no... lungi da questa

reggia di sangue io me n’andrò... Ma il figlio,

il figlio meco, e poi morir... Sí... morte

quanto piú cara assai!... morte, sí morte

(At. I, sc. 2),

nei soliloqui che spesso per troppa complessità di dubbi e contrasti rischiano di riprodurre Metastasio in linguaggio alfieriano (II, scena terza), fino a risultati di tensione e di suggestione che arricchiscono il verso foscoliano di pause, di sottolineature e di centri suggestivi per un suono piú complesso, piú deciso.

Si può dire che qui l’esercizio prolungato di endecasillabi sciolti, sull’esempio alfieriano, otteneva il duplice e unico scopo di complessità e cadenza preromantica (Alfieri con dietro Ossian) e di conclusione e articolazione classicistica che portava il verso foscoliano al di là delle prove precedenti.

Erope:

Ove mi traggi?

Ippodamia:

Or tutto tace: amiche

stan le tenébre su la muta reggia

Vien...

Erope:

Qual mistero!

Ippodamia:

Alta è la notte; alcuno

qui non avvi che n’oda e che ne scorga:

Vien meco.

Erope:

E dove?

Ippodamia:

Ove pietà comune

ci chiama entrambe. Or ti fa forza, e forza

salda, sublime, quanta in cor ti senti;

ed io pur ferma sto, benché vacilli

mia afflitta, debil anima. Grand’opra

compir dei tu.

Erope:

Qual opra mi s’addice

non dolorosa! No... lasciami: sacra

è la notte al mi’ affanno; e questa è notte...

ultima.

(At. III, sc. 1)

L’aria sacra e misteriosa del mito greco si incontra con l’insistente motivo preromantico della notte e della morte che anima come simbolo di una angoscia non ancora chiarita tutta la tragedia, e sulla offerta del verso alfieriano un originale principio di lirica spunta e nutre di quando in quando scene, movimenti e frasi. Nello sforzo pur notevole di costruzione generale, il Foscolo era riuscito a far muovere la sua poesia sia pure in scatti limitati, ma originali, aveva dato un’espressione impetuosa anche se provvisoria e piena di cadute e di errori al fondo turbato del suo animo giovanile, aveva acquistato al suo verso quella complessità e quello scatto drammatico che gli sono tipicamente essenziali. Ancora immaturo e in piena formazione, il giovane Foscolo farà ancora altre esperienze (l’eloquenza poetica delle odi politiche, l’enfasi e l’onda musicale degli Sciolti al Sole) e riprenderà nell’Ortis bolognese toni d’idillio e di elegia qui abbandonati, ma l’esperienza del Tieste sarà fondamentale per l’Ortis milanese, e piú direttamente in poesia per i Sonetti e per la sua poesia matura in cui eletta perfezione, musica alta e serena sorgeranno su di una base drammatica ed eloquente resa intima, presupposta, ma simile all’impeto piú rozzo ed ingenuo (e involto in forme letterarie) che nel Tieste si è manifestato con tanta giovanile irruenza.

6. Le poesie politiche ed altre poesie del ’97

Contemporaneamente al Tieste e proprio nella ricerca della formazione del verso foscoliano, cui a proprosito del Tieste abbiamo accennato, vanno considerati degli endecasillabi sciolti che, fra l’onda sonora ed eloquente del Monti (che poteva essere pericolosa tentazione per una espressione facile ed efficace) e la mesta e grandiosa cadenza ossianesca, indicano un primo avvio della tipica musica foscoliana: alla quale, secondo l’ammissione del Foscolo, dovevano contribuire anche l’esempio della lucida precisione elegante del Parini e della drammatica asprezza dell’Alfieri (che abbiamo già considerato nel Tieste)[21]. Sono quegli Sciolti al Sole che trovano un esempio simile, ma piú esteriore e vacuo, in alcuni brani del lungo componimento La Giustizia e la Pietà pubblicato nel ’97 per celebrare da parte del committente Angelo Chiozzotto il «regresso dalla reggenza di Chioggia» di Angelo Memmo IV[22].

In questo componimento, costruito a mosaico, si alternano, in mezzo a brani insignificanti e verbosi, momenti di chiara scuola neoclassica e pariniana

(Zefiro fra le vele agili piume

spiegava...

... e l’omicida infame

getta il pugnal ed all’aratro torna

onde sien carchi di Britannia i pini,

del dolce frutto di Zacinto onore...

... Di trofeo ricinto

te Corcira adorò; d’Itaca i solchi

al tuo apparire germinaro, offrendo

a te raro tributo, e Cefalene

ancor ne serba la memoria dolce...)

e momenti di grandiosità montiana-ossianesca intorno a motivi di crolli cosmici che già avevano ossessionato la fantasia dell’adolescente nelle Odi del ’95-96

Verrà quel giorno,

verrà quel giorno, disse Dio, che all’aere

ondeggeranno quasi lievi paglie

l’audaci moli; le turrite cime,

d’un astro allo strisciar, cenere e fumo

saranno a un tratto; tentennar vedrassi

orrisonante la sferrata terra

che stritolata piomberà nel lembo

d’antiqua notte, fra le cui tenebre

e Luna e Sol staran confusi e muti...

Ma piú interessanti, in questa direzione di grandiosa e mesta eloquenza poetica, in questa utilizzazione dell’esempio essenziale dell’Ossian nella formazione del verso foscoliano, sono gli Sciolti al Sole, in cui rispetto al componimento citato vi è una maggiore compattezza ed una direzione univoca in cui la stessa scuola di eleganza pariniana e l’esempio montiano di fluidità e di facile sonorità sono moderatamente utilizzati e risentiti dentro il prevalente esempio ossianesco, in una maggiore capacità di sintesi personale.

È soprattutto nell’ultima parte (che poi il Foscolo rifece in prosa nell’Ortis) che, sulle offerte dei suoi modelli e soprattutto servendosi della cadenza cesarottiana, il giovane poeta raggiunge risultati piú importanti, annunciando insieme immagini, soluzioni ritmiche che diventeranno inconfondibilmente suoi:

Tutto si cangia,

tutto pêre quaggiú! ma tu giammai,

eterna lampa, non ti cangi? mai?

Pur verrà dí che nell’antiquo vôto

cadrai del nulla, allor che Dio suo sguardo

ritirerà da te: non piú le nubi

corteggeranno a sera i tuoi cadenti

raggi sull’Oceàno; e non piú l’Alba

cinta di un raggio tuo, verrà sull’ôrto

a nunziar che sorgi. Intanto godi

di tua carriera. Oimé! ch’io sol non godo

de’ miei giovani giorni; io sol rimiro

gloria e piacere, ma lugubri e muti

sono per me, che dolorosa ho l’alma.

Sul mattin della vita io non mirai

pur anco il sole, e ormai son giunto a sera

affaticato; e sol la notte aspetto

che mi copra di tenebre e di morte.

Ma nella primavera del ’97 il Foscolo abbandonò la letteratura in cui si era avvolto fino allora nella ricerca di una propria poesia attraverso molteplici e disuguali esperienze, e si volse, con l’impeto di chi trova improvvisamente uno sforzo adeguato al suo bisogno di impegno, all’attività politica. Le congiure dei giovani democratici veneziani avevano provocato una reazione del governo oligarchico e il giovane Foscolo aveva dovuto abbandonare Venezia agli ultimi di aprile del ’97, recandosi nella Repubblica Cispadana a Bologna dove fu nominato tenente onorario della Legione Cispadana.

Appena caduta la repubblica oligarchica (17 maggio), il giovane democratico rientrò in patria e, superata una violenta malattia, si gettò nell’attività politica: non attività di organizzazione e di amministrazione, ma attività tribunizia esplicata con estremo entusiasmo e assiduità nella Società della pubblica istruzione e poi quale segretario e resocontista delle sedute della Municipalità.

Dalle lettere di quell’epoca (ad esempio quella al Fornasini del 2 maggio: «Voi in Brescia siete liberi: io per vivere libero abbandonai patria, madre, sostanze. Venni nella Cispadana con la devozione del democratico; passerò per la vostra rigenerata città colla sacra baldanza del repubblicano: potremo per la prima volta giunger le destre sciolte dalle catene dell’oligarchia»), dai verbali delle sedute della Società di pubblica istruzione[23] (nelle quali l’eloquenza foscoliana faceva furore e infastidiva i membri piú moderati ed autorevoli) si può avvertire l’impeto da cui era animato il Foscolo e la mescolanza di vero vigore o di enfasi ingenua che si ritrova poi nelle Odi politiche di quell’epoca. Il periodo che va dalla sua prima fuga a Bologna a Campoformio e alla sua nuova partenza fu un periodo di eccezionale entusiasmo e di fervore non solamente enfatico, ma tale da costituire una prima base essenziale del suo pensiero politico e dell’elemento politico essenziale alla sua poesia. L’atteggiamento del Foscolo, qui giacobino ed ingenuamente estremista, venne poi modificandosi e mutandosi sia per contatti intellettuali (essenziale quello con il Lomonaco), sia per l’esperienza storica che lo ebbe sempre attentissimo osservatore, ma sostanzialmente fin da questo periodo, che si è soliti qualificare di “scalmana rivoluzionaria”(!), il suo sostanziale realismo storico (per cui giustamente il Salvatorelli lo colloca assai in alto per coscienza storica e politica), la sua esigenza di una democrazia capace di difendersi, di una indipendenza nazionale e di armi nazionali, si precisano dai discorsi tenuti alla Società di pubblica istruzione in una posizione originale e vigorosa. E la sua acuta scelta di posizione – malgrado le delusioni – dalla parte dei francesi e delle repubbliche da essi create in Italia (il Foscolo sentiva che se pure si trattava di una libertà «prezzolata», come egli dice, la via della libertà italiana doveva inevitabilmente passare attraverso quel primo stadio, lontana dalle posizioni di difesa dei vecchi regimi e dalle posizioni di distacco e di indifferenza) si rivela anche nello strano discorso contro l’Alfieri – in una seduta della società di pubblica istruzione – a cui il giovane ammiratore rimprovera di essersi isolato, di non aver compreso la storia del suo tempo, di aver negato la sua parola chiarificatrice ad un tempo di decisioni necessarie. Il Foscolo non era un illuso che solo Campoformio disingannò. Egli prevedeva come possibili delusioni e tradimenti e perciò – anche con insistenza ingenua – ribadiva continuamente la necessità di armi italiane, di attiva partecipazione italiana alla difesa contro gli alleati antifrancesi, e – con accenti assai giovanili – la necessità di una “austerità” degli italiani su cui poter costruire la loro indipendenza e la loro severa libertà. Non c’è un Foscolo infatuato giacobino e ammiratore dei francesi fino a Campoformio e poi uno sdegnato, ostile avversario. In realtà, se in seguito la coscienza nazionale si precisò in lui (già piú nettamente nel Discorso allo Championnet del ’99), la sua posizione ebbe dei punti centrali essenziali: necessità di superare lo stadio di libertà controllata e concessa dai francesi, ma coscienza dell’importanza di un esercizio sia pure di parziale libertà negli stati di creazione napoleonica.

Il che ci interessa affermare non per un elogio della coerenza ideale del Foscolo, ma per assicurare già in questo periodo l’originalità del suo atteggiamento e la validità storica e personale di motivi che si manifestano nelle poesie politiche del ’97: anche nell’eloquenza e nei limiti espressivi di queste poesie fermentavano germi essenziali della personalità foscoliana e la sua eloquenza (cosí necessaria insieme alla drammaticità per la nascita della sua poesia) non è eloquenza vuota ed insignificante. È nutrita di motivi vitali e originalmente partecipati dal Foscolo ed è avvio di poesia, come sulla via della drammaticità lo era il Tieste.

Un primo esempio di poesia politica risale alla fine del ’96 (si riferisce alla proclamazione di neutralità del 27 settembre ’96 in risposta alla offerta di alleanza del ministro francese Lallemand e fu pubblicato nell’«Anno Poetico» nel ’97):

O di mille tiranni, a cui rapina

riga il soglio di sangue, imbelle terra!

’Ve mentre civil fama ulula ed erra, siede negra politica reina;

dimmi che mai ti val se a te vicina

compra e vil pace dorme, e se ignea guerra

a te non mai le molli trecce afferra

onde crollarti in nobile ruina?

Già striscia il popol tuo scarno e fremente,

e strappa bestemmiando ad altri i panni,

mentre gli strappa i suoi man piú potente.

Ma verrà il giorno, e gallico lo affretta

sublime esempio, ch’ei de’ suoi tiranni

farà col loro scettro alta vendetta.

Sonetto in cui si può apprezzare piú una sicurezza di impianto generale, su cui ben si appoggia l’ultima terzina piú vigorosa ed esplicita, che non puntuale forza delle espressioni, sciupate da concessioni a linguaggio esteriore e convenzionale.

Piú importanti e complesse le due Odi. Nella prima (Ai novelli repubblicani) un piglio di fierezza, un gusto di energia, in coincidenza con la suggestione plutarchiana-alfieriana, anima la struttura generale: impeto negli inizi e nei passaggi, saldezza di architettura che contiene l’enfasi piú rumorosa che aveva avuto tanta parte nelle Odi degli anni precedenti.

Questo ch’io serbo in sen sacro pugnale,

io l’alzo e grido a l’universo intero:

«Fia del mio sangue un dí trepido e nero,

ove allontani le santissim’ale

dal patrio cielo Libertà feroce».

Già valica mia voce

d’Adria le timid’onde,

e la odono echeggiando

le marsigliesi sponde.

Il mito essenziale dell’uomo libero, che si prefigura piú che il successo la-catastrofe e il magnanimo suicidio, domina tutta l’ode, che si chiude con una precipitazione tipicamente giovanile nell’immagine di una lotta difficile contro la mollezza inveterata di popoli abituati a servire, contro le «tirannesche frodi» e l’«oligarchica rabbia», e quasi di una desiderata catastrofe che metta in luce l’eroismo cupo e austero dei pochi repubblicani, dei pochi uomini virtuosi (prima era l’élite delle «anime sensibili», poi delle «anime geniali», ora degli «uomini liberi», riunite tutte nell’elogio della passione e della personalità ardente che sarà al centro dell’Ortis), culminante nel suicidio catoniano.

La figura poetica che campeggia nell’ode piú del combattente è l’eroe suicida dopo una lotta senza timore, che aveva nel centro dell’ode fallito praticamente il movimento di inno a cui non era estranea la suggestione della Marsigliese, risorge e si allarga in una specie di preromantica visione di Caio Gracco spinto dall’ombra del fratello a combattere la sua giusta battaglia popolare ed a cadere suicida pur di non spargere sangue fraterno in triste lotte intestine:

Ma Genio intanto a noi scende di pace,

e con la destra un ramoscel di ulivo

alza, e dolce cantando inni giulivo,

scote con l’altra man candida face;

e de le morte età la tacit’ombra

col puro lume ei sgombra,

e sul sublicio ponte

mostra il secondo Gracco

pallido e cupo in fronte.

Piú ambiziosa di complessità, fra architettura solenne, ritmo grandioso ed eroico, abbondanza di scene storiche e di esortazioni politiche, è l’Oda a Bonaparte liberatore, scritta durante il breve esilio da Venezia della primavera ’97, e certo ricca di fede repubblicana e democratica e di quell’entusiasmo etico-politico che mentre anima un tema centrale dell’animo foscoliano (la libertà) lo assicura ad una visione storica capace di caratterizzazioni poetiche e soprattutto ad una esaltazione lirica dell’eroe sfortunato che è preludio chiaro dell’Ortis.

Qui il tema centrale è l’esaltazione della libertà e lo stesso Bonaparte – che non è minimamente adulato in questo primo esempio di «liberal carme» – è presentato come eroe libero e liberatore, contrapposto a Cesare «eroe nel campo», ma tiranno, come mano secolare della libertà, sentita quasi come un valore superiore che muove la storia contro gli ostacoli della tirannia, della superstizione e la stessa debolezza dei servi che con forte accentuazione etica è sentita come causa essenziale della mancanza di libertà. Ed è ovvio che in questa posizione di poesia esaltatrice di libertà, anche se incarnata in un liberatore, l’esempio unitario dell’Alfieri (eloquenza politica ed espressione di poesia che riconosce nella libertà la «sua vera madre») è particolarmente presente al giovane poeta che sempre piú sentiva il fascino e lo stimolo dell’Alfieri, anche se proprio in quell’anno contro di lui si scagliava in una seduta della Società patriottica per il suo atteggiamento nelle vicende contingenti di quegli anni.

Con l’esempio delle cinque odi all’America libera il Foscolo costruí un’ode prolissa (234 versi, quasi la lunghezza dei Sepolcri!), come storia della libertà, che solo in alcuni punti si trasforma nella figura del suo campione (come nella strofa quinta in cui la scena di Napoleone al ponte di Arcole ripresa in versi piú faticosi che riusciti:

Ma s’affaccia l’Eroe: sieguonlo i prodi,

repubblicano in fronte

nome vantando con il sangue scritto.

Ecco d’estinti e di feriti un monte;

ecco i schiavi Aleman ch’offrono il tergo;

e la tricolorata alta bandiera

in man del duce, che in feral conflitto

rampogna, incalza, invita, e in mille modi

passa e vola, qual Dio, di schiera in schiera.

Pur dubbio è Marte. Ei dove

piú dei cavalli l’ugna

nel sangue pesta, e sangue innalza e piove,

e regna morte in piú ostinata pugna,

co’ suoi si scaglia, e la fortuna sfida,

guerriero invitto, e fra le fiamme pugna,

e vince, e Italia libertade grida.)

(vv. 140-156).

Ma se il tema è la storia della libertà e il suo nuovo trionfo in Europa (ed è evidente l’ambizioso ricordo della storia dell’aquila del VI del Paradiso dantesco), che inducono un innegabile senso di vastità, di sguardo su scene grandiose, i momenti piú capaci di espressione poetica sono appunto le rapide rassegne di luoghi e di situazioni storiche e politiche in cui impeto e forza di definizione si incontrano, mettono in luce versi piú densi e sicuri, movimenti vigorosi e definiti in un ritmo rapido e solenne, in riferimento ad un senso appassionato e romantico della storia e della civiltà umana e ad un amore del rilievo descrittivo e definitorio propri del neoclassicismo.

Cosí, di fronte a strofe piú scadenti anche se contenutisticamente interessanti, come il finale

(Ma, dell’Italia, o voi genti future,

me vate udite, cui divino infiamma

libero Genio e ardor santo del vero:

di Libertà l’incorruttibil fiamma

rifulse in Grecia sin al dí che il nero

vapor non surse di passioni impure;

e le mura sicure

stettero, e l’armi del superbo Serse,

dai liberi disperse,

di cittadin valor fur monumento,

ambizion con le dorate piume,

sanguinosa le mani,

e di argento libidine feroce,

e molti studi, e piacer folli e vani

a Libertà cangiar spoglie e costume.

Itale genti, se Virtú suo scudo

su voi non stende, Libertà vi nuoce:

se patrio amor non vi arma di ardimento,

non di compre falangi il petto ignudo;

e se furenti modi

dal pacifico tempio

voi non cacciate e sacerdozie frodi,

sarete un dí alle età misero esempio.

Vi guata e freme già il tiran vicino

dell’Istro, e anela a farne orrido scempio:

e un sol Liberator dievvi il destino.)

(vv. 209-234)

appaiono piú sicure quelle in cui l’eloquenza si appoggia ad un gusto di rilievo descrittivo che non rimane esteriormente decorativo alimentato da un vivo senso di storicità.

Cosí la descrizione della situazione italiana nella primavera del ’97

(de’ boreali Vandali ai nepoti

vestendo, al scettro posano la croce

onde il Tevere e l’Arno, a te devoti,

libertà santa Dea, cercan la foce

sdegnosamente in suon quasi di pianto;

e la turrita Manto

offre asilo ai tiranni; e il bel Sebeto

lambe i piè mansueto

alle soggette ad Etna auree campagne,

e ricche aduna a gli oppressor le méssi;

abbevera il Ticino

ungari armenti; e le ospitali arene

non saluta Panaro in suo cammino.

T’ode gridar oltre le sue montagne

la subalpina Donna, e l’elmo allaccia,

e s’alza e terge i rai nel duol dimessi;

ma le gravano il piè sarde catene,

onde ricade e copresi la faccia;

e le a te care un giorno

città nettunie, or fatte

son di mille Dionisi empio soggiorno:

Liguria avara contro sé combatte;

e l’inerme Leon prostrato avventa

ne’ suoi le zampe e la coda dibatte

e gli ammolliti abitator spaventa.)

(vv. 79-104)

o l’inizio eloquente dell’ode che traccia la prima storia della libertà dopo la sua fuga da Roma imperiale:

Dove tu, Diva, dall’antica e forte

dominatrice libera del mondo

felice all’ombra di tue sacre penne,

dove fuggisti, quando ferreo pondo

di vile e fera tirannia le tenne

umil la testa fra servaggio e morte?

Te seguir le risorte

ombre de’ Bruti, ai secoli mostrando

alteramente il brando

del padre tinto e del figliuol nel sangue.

Te, o Libertà, se fra le gelid’onde

del Danubio e del Reno,

gisti con genti indomite guerriere;

te, se t’accolse nel sanguigno seno

Britannia, e t’avvincea mortifer’ angue;

te, se al furor di mercenarie spade,

dell’Ocean dalle vietate sponde

t’invitar meste e del tuo nome altere

le americane libere contrade;

o le batave fonti,

o ti furon ricetto

coronati di gel gli elvezii monti,

or che del vero illuminar l’aspetto

non è delitto, or io te Diva invoco;

vieni e la lingua e il petto

mi snoda, e infiamma del tuo santo foco.

Certo eloquenza, ma eloquenza che si presenta tutta piena di vita, animata di motivi intensi e validi per la futura poesia foscoliana e, di quando in quando, capace nel suo vigoroso piglio (essenziale alla nascita della poesia foscoliana) di fissare immagini, di delineare movimenti poetici.

La precisata passione politica è certamente il motivo nuovo del ’97 e rappresenta l’elemento vivificatore della poesia foscoliana in una rivelazione di forza interiore che urgeva ormai nel Tieste e nelle poesie precedenti.

Ma nello stesso ’97 la tendenza ad una espressione idillico-elegiaca (cosí viva poi nell’Ortis bolognese) trova nuova espressione – con un tono piú appassionato – nel sonetto Quando la terra è d’ombre ricoverta, che ci guida ai sonetti della serie illustre.

Quando la terra è d’ombre ricoverta,

e soffia il vento e in sulle arene estreme

l’onda va e vien che mormorando geme,

e appar la luna tra le nubi incerta:

torno dove la spiaggia è piú deserta

solingo a ragionar con la mia speme,

e del mio cor che sanguinando geme

ad or ad or palpo la piaga aperta.

Lasso, me stesso in me piú non discerno,

e languono i miei dí come vïola

nascente ch’abbia tempestata il verno;

ché va lungi da me colei che sola

far potea sul mio labbro il riso eterno:

luce degli occhi miei, chi mi t’invola?

È sempre sulla linea delle Rimembranze, della fantasticheria amorosa legata ad un paesaggio che essa soffonde di tenerezza mentre ne ricava suggestione di sfumature malinconiche. Quasi una ripresa di paesaggi ossianeschi raggentiliti in maggiore armonia di eco petrarchesca, mentre una maggiore robustezza drammatica regge al centro la poesia e permette una melodia piú sicura, ma sempre nel tono della réverie e dell’estasi giovanile, come avviene nella redazione dell’Ortis bolognese in cui possiamo pensare come simili tinte di elegia e di idillio da Laura passassero piú irrobustite senza con ciò perdere il loro carattere di tenerezza, di inclinazione sentimentale.

Si vuole avere subito il senso della distanza che c’è fra Laura ed Ortis ’98 e quello del 1801? sulla direzione essenziale del sogno amoroso e del paesaggio sentimentale? Si legga il sonetto Cosí gli interi giorni in lungo, incerto, attribuibile al 1801 e all’amore per la Roncioni e che riprende evidentemente spunti e versi di questo sonetto per la ignota Laura.

Cosí gli interi giorni in lungo, incerto

sonno gemo! ma poi, quando la bruna

notte, gli astri nel ciel chiama e la luna,

e il freddo aër di mute ombre è coverto;

dove selvoso è il piano e piú deserto,

allor, lento io vagando, ad una ad una

palpo le piaghe onde la rea fortuna

e amor e il mondo hanno il mio core aperto.

Stanco m’appoggio ora al troncon d’un pino,

ed or prostrato ove strepitan l’onde,

con le speranze mie parlo e deliro.

Ma per te le mortali ire e il destino

spesso obliando, a te, Donna, io sospiro:

luce degli occhi miei, chi mi t’asconde?

Novità, ripresa e contaminazione.

Dal punto di vista della costruzione, alla maggiore complessità della fantasticheria che si fa meditazione corrisponde una nuova volontà di linea movimentata, ben visibile specie nella prima quartina dove prima i versi si allineavano fiaccamente in facile simmetria con altrettante note di paesaggio. Ma quante parole rimangono nella intonazione piú tenue (sfumatura che serví spesso al Foscolo maggiore come velo di tinte piú forti): la notte «bruna», «lungo, incerto sonno», l’«aer coverto di mute ombre», ecc. e in tono languido rimane lo stesso finale preso da una poesia del Lamberti[24].

Sí, il Foscolo aveva movimentato il primo sonetto e superato il suo tono piú languido, ma solo in parte e con evidenti contaminazioni e ritardi: come avviene appunto, per questo tema fondamentale, fra Ortis bolognese e Ortis milanese (prima parte). Le Rimembranze ci indicavano il punto di gusto e di ispirazione di Laura, il sonetto Quando la terra ci segna il passaggio alla situazione generale del primo Ortis alla cui lettura esso direttamente ci avvia.


1 In Antona-Traversi e Ottolini, Ugo Foscolo, Milano 1927, I, p. 66.

2 Cosí nella dedica del Tieste all’Alfieri e alla Saluzzo (22 aprile 1797, Epistolario, Edizione Nazionale, I, 1949, pp. 42-43) ripete: «la prima tragedia di un giovane nato in Grecia ed educato fra Dalmati». C’era anche l’orgoglio della sua conquista della lingua italiana e un certo gusto di singolarità e di esotismo.

3 Ved. M. Fubini, Foscolo minore, Roma 1949, p. 97; V. Cian, Prose di U.F. cit. – Al contrario L. Fassò attribuisce i Frammenti al 1813-1814.

4 Cosí nella lettera al Fornasini del 14 marzo 1795 (Epist., I, p. 7).

5 Il manoscritto inviato all’amico Costantino Naranzi nel 1794 fu poi pubblicato a Lugano nel 1831.

6 Cito dall’edizione di Bassano 1785; Bertola, Operette in verso e in prosa.

7 Nella poesiola ritornano espressioni bertoliane («di Mergellina al lido», II, p. 168) e la tipica suggestione di una pittura di paesaggio idillico fatta da chi si proclamava (II, p. 78): «Me cantore di gelide / fontane, e pratei morbidi / negletto sí, ma vero; / me a tenui cose nato, / me dall’età piú tenera / di Tibullo e Gesnero / seguace innamorato».

8 Ma poi proprio la Verità, segnata con doppio asterisco, fu subito inviata al Cesarotti come presentazione del giovane poeta e pubblicata nel ’96 nell’«Anno Poetico».

9 Come era incapace di chiarirsi la direzione di questo risentimento etico-religioso e rivoluzionario, ma involto in forme equivocamente tradizionali, per cui si poté parlare di una fase «pia» della preistoria foscoliana, mentre i riferimenti alla «fede», al «Solopossente», al cielo, ecc., ecc. valgono, piú che ad indicare una precisa adesione religiosa del Foscolo, un bisogno di grandiosità di tono religioso ed una vaga aspirazione spiritualistica.

10 Nell’Esame su le accuse contro V. Monti (1798) si legge: «Prima, feroce e universale accusa contro V. Monti si è la cantica Bassvilliana. Inevitabile certo e necessaria fors’anche fu la dittatura di Robespierre, il quale, sacrificando alla libertà, eccitò gli odii antichi e le private vendette, coronò gli scellerati, atterrí la innocenza, desolò la Francia, contaminò la libertà ed accrebbe la infamia dell’umano genere. La Francia cancellò quest’epoca dagli annali della sua rivoluzione; e in quest’epoca il Monti imprese la cantica, e dopo quest’epoca la interruppe. V’ha dunque delitto se il poeta con risentiti colori e con fantastiche idee dipinse il regno del Terrore, mentre fu dagli scrittori francesi storicamente presentato alla esecrazione dei francesi?» (Prose, I, p. 63).

11 L’ode era stata inviata manoscritta al Fornasini, poi pubblicata nel «Mercurio d’Italia».

12 Il Piano di studi è riportato dal Cian nella sua edizione delle Prose del Foscolo, Bari 1913, vol. I, pp. 3 ss.

13 Ma tale mescolanza era in quel periodo essenziale al costume letterario piú “aggiornato” e la stessa suggestione neoclassica era facilmente involta nella sentimentalità preromantica, particolarmente nel circolo cesarottiano, che in quei mesi tanto influiva sul giovane Foscolo. Si legga una lettera del ’96 a Paolo Costa e questa sintesi di letture preromantiche e neoclassiche in un’atmosfera preromantica risulterà anche piú evidente e piú viva e tale da costituire una limpida introduzione alla Laura e, in parte, all’Ortis bolognese, insieme ad altre due lettere all’Olivi, sempre del ’96. «Allora che, diradate per qualche momento le tenebre che offuscano tutti i miei tristi pensieri, allorché lo sbattuto mio core trova qualche riposo, e la fantasia non pinge tutti gli oggetti delle sue tinte di morte, io penso all’amicizia, e mi delizio avvolto da un’elegante malinconia, mormorando i patetici versi d’Ossian e di Geremia, contemplando l’immagini di Canova, di Raffaello e di Dante: e fra i piú soavi palpiti rimango finalmente assorto nel sembiante della bellissima fra le donne. Benedico la mano della Natura, adoro la effigie del Sublime e del Bello, e mi beo nell’aspetto tumultuoso delle passioni, e d’un inquieto piacere» (Epistolario, I, p. 30), e in quella dell’8 settembre ’96 all’Olivi (pur cosí caratteristica nel tono di passione e di languore sentimentale) ricorrono insieme la lettura dell’Ossian e l’ammirazione del Giove Egioco dello Schiavon, pittore neoclassico che gli «ha ridestato le delizie del Bello e gli fe’ scrivere dopo due settimane che non adoperava la penna» (p. 36).

14 Vedi Bertola, Opere, Bassano 1785, I, p. 52: «Rolli è cosí appassionato, cosí naturale, cosí delicato, che non so chi de’ lirici di questo secolo possa in siffatti pregi metterglisi a fronte; e guai in materia di linguaggio di cuore a chi non l’ha per tale».

15 Naturalmente è un’erronea attribuzione del carattere di traduzione ai versi del Pope, che sono un componimento originale che utilizzò la traduzione di Hughes.

16 Come si vede dalla lettera al Cesarotti del 30 ottobre 1795, che dava per compiuta un’opera evidentemente ancora solo abbozzata: «Signore. Osai credermi bastantemente pieno di genio onde cantare i suoi pregi, e svolgere un soggetto intentato. Meditai da gran tempo un poema ch’essendo della piú grande estensione dovea, ristretto in poche pagine, rendersi originale in Italia. Egli è il “Genio”. La filosofia di Platone potrebb’esserne l’anima, ed i Piaceri dell’immaginazione di Akenside il modello. Con questi disegni mi posi da due mesi all’impresa, e ieri mi venne finalmente compiuta. Pieno prima d’ardire, or non credo a me stesso, e riguardo quest’opera come un sogno... Ma qui il mio ardire non ebbe fine. Ardii scrivere una tragedia sopra un soggetto che fu già toccato da Crébillon e dal gran Voltaire. Sí, scrissi il Tieste, e con quattro attori soltanto. Qual ei siasi vedrassi frappoco dagli intenditori sulla scena a cui l’affido. S’essi non l’accetteranno fra le lor favorite, basterammi le lagrime ed il terror degli ignari, che sono i principali oggetti di tutti i miei versi. Certo ch’io non avrei avventurato la mia fatica e il mio nome, se il Crébillon fosse meno intricato, e il grande autore del Maometto piú terribile e piú deciso». Dopo la rappresentazione scriveva al Cesarotti (febbraio 1797): «Mio Padre; si vide il Tieste; si tacque e si pianse. Ecco l’elogio che io faccio al Foscolo di diciott’anni. Il Tieste fu giudicato da un popolo non filosofo in cosa alcuna, e meno in questa: felice dunque l’autore di diciotto anni che seppe carpire la fama dalla bocca di una capitale mal prevenuta, per lo stile, per la semplicità, e quel ch’è piú per le passioni grandi ed energiche».

17 Do in nota lo schema del Tieste. Il primo atto si apre nella reggia di Argo, mentre Erope (moglie di Atreo re di Argo) sta per uccidere il figliuoletto avuto da Tieste (fratello di Atreo) al quale era stata precedentemente promessa. Erope è spinta a ciò dalla persecuzione di Atreo che, dopo di aver bandito il fratello, ha privato la moglie del proprio figlio tenendolo sotto una continua minaccia. Erope ha rapito il figlio alla custodia delle guardie di Atreo e vorrebbe uccidere il bimbo e se stessa per sfuggire all’incubo di una colpa e di una minaccia. Ma interviene Ippodamia, madre dei due fratelli nemici, e la persuade a lasciare il fanciulletto alla custodia di Atreo, rassicurandola sulle intenzioni di quest’ultimo. Nel secondo atto sopraggiunge Tieste, richiamato in Argo dalla falsa voce che Erope sta per essere uccisa per ordine del marito. Ippodamia lo vede e, dopo averlo rassicurato sulla sorte di Erope, lo implora di nascondersi, mentre essa cerca di indagare l’animo del tiranno, che si mostra benevolo verso Erope e suo figlio. Nel terzo atto Erope vorrebbe indurre Tieste a fuggire fingendo verso di lui orrore e sdegno, ma poi non resiste alla commozione, gli rivela l’immutato suo amore e la nascita a lui ignota (perché avvenuta durante il suo esilio) del figlio. In un nuovo incontro nell’atto quarto Tieste, invano trattenuto da Erope, si prepara ad attentare alla vita del fratello tiranno, ma questi, che ha preparato in ogni particolare l’insidia in cui Tieste è caduto, si presenta improvvisamente con le sue guardie e fa arrestare i due amanti. Nel quinto atto, alla presenza di Erope e Tieste, Ippodamia scongiura Atreo di risparmiare il fratello. Atreo sembra improvvisamente cedere alle preghiere della madre ed offre la riconciliazione a Tieste che, generoso ed ingenuo, la accetta con gratitudine dimenticando le profonde ragioni di contrasto (la tirannide di Atreo avversata dal suo amore per la libertà e l’amore per Erope). Ma Atreo non ha affatto perdonato e la coppa con cui Tieste deve bere all’avvenuta conciliazione è piena del sangue del suo figliuoletto fatto svenare da Atreo. Tieste, dopo aver tentato di uccidere il fratello, si suicida, mentre, di fronte alle due donne atterrite, Atreo si proclama vendicato e attende su di sé la vendetta dei numi.

18 Studiarono il Tieste nel teatro foscoliano con accuratezza e ricchezza di particolari storici e tecnici F. Viglione (Sul teatro di Ugo Foscolo Pisa, 1904), E. Flori (Il teatro di Ugo Foscolo, Bologna 1925). Ultimamente A. Chiari insiste invece giustamente (Verso l’Ortis, in Indagini e letture, Città di Castello 1946) sul carattere di pre-Ortis. Considero questo studio come utile anticipazione ad una nuova considerazione di tutto il periodo di formazione, dopo il celebre saggio carducciano.

19 Il Tieste è edito nel volume IX delle Opere del Foscolo, ed. Le Monnier.

20 Si è parlato piú volte di “Sturm und Drang” per l’Alfieri (Croce nell’articolo del ’17, L. Vincenti nel fondamentale saggio della «Festgabe Vossler», München 1932, ripubblicato nel ’49 su «Belfagor», A. Gerbi nella Politica del romanticismo, Bari 1928).

21 Vedi il saggio dello Hobhouse in Opere, Le Monnier, XI, pp. 285-286.

22 Il componimento è anonimo, ma la paternità foscoliana è confermata dall’opuscolo ritrovato alla Marciana dal Cestari nel 1846, dalla testimonianza del figlio del Chiozzotto e da chiari argomenti interni (le lodi di Zacinto, ecc.).

23 Riportati in parte nello studio di A. Michieli, U. Foscolo a Venezia, in «Nuovo Archivio Veneto», 1903-1904.

24 Il lamento di Dafni: «Ecco già il mondo in preda al sonno giace, / ecco tacciono i venti e taccion l’onde: / sol nel mio petto il mio dolor non tace: / quindi i poggi e le valli ime e profonde / fo egualmente sonar d’un mesto grido: / luce degli occhi miei chi, mi t’asconde?» (L. Lamberti, Poesie e prose, Milano 1822, p. 29).